La nuova creatura targata Netflix e firmata Guillermo del Toro nasce dall'antica fascinazione per il collezionismo. Tra cinema e televisione, sono molti i prodotti antologici che hanno riunito insieme sotto lo stesso tetto creativo registi di genere per raccontare le più disparate storie dell'orrore (V/H/S, The Abc's of Death), thriller (Alfred Hitchcock presenta), western (La Ballata di Buster Scruggs), fantascientifiche (The Twilight Zone, Black Mirror) o più variopinte (Room 104). Poche sono però le opere che sono riuscite a mantenere vivi e vibranti talento e stile dei filmmaker chiamati a collaborare, spesso diluiti maldestramente nel contesto. Forse perché adeguato e a suo agio nel ruolo di deus ex machina realmente competente e appassionato, Del Toro ha invece saputo valorizzare con lungimiranza e generosità l'arte e i tratti più distinguibili e apprezzabili di ognuno degli autori da lui collezionati nel suo sorprendente Cabinet of Curiosities.
Immaginate un enorme mobile che cela al suo interno scompartimenti segreti ricolmi di oggetti di ogni tipo. E che dietro a quegli oggetti si nasconda un racconto inquietante. Del Toro guarda in effetti a Hitchock e a Rod Serling per creare la propria antologia da presentare, interamente ideata per lasciare libero sfogo artistico ai registi da lui chiamati a partecipare, a personalità cinematografiche impossibili da addomesticare sotto un'idea di stile unitaria. Per questo ognuno degli otto episodi di cui parleremo in questa recensione di Cabinet of Curiosities è un lungometraggio a sé stante sotto ogni possibile aspettato formale e contenutistico. E per questo tutti centrati e coinvolgenti, chi più e chi meno.
Lotto 36
Prendete il format di Affari al Buio, unitelo al Satanismo ed ecco servita la prima storia dell'orrore del mobiletto delle curiosità deltoriano. La regia è affidata a Guillermo Navarro, collaboratore di lungo corso del suo omonimo come direttore della fotografia e con appena una sola esperienza effettiva dietro la macchina da presa. Di fatto la sua firma è più rintracciabile nella fotografia che nella visione d'insieme, ma come capitolo introduttivo del progetto funziona egregiamente. La short story è scritta da Del Toro e segue la vicenda di Nick Appleton (Tim Blake Nelson), reduce di guerra scontroso e aggressivo e con simpatie per la white supremacy che sopravvive come box hunter. Accaparratosi il Lotto 36, entra in possesso di materiale di grande valore, trovandosi presto a dover scegliere tra avidità e sopravvivenza, con la vita pronta a presentargli il salato conto in contrappasso.
È il secondo episodio più corto della serie (45 minuti) ma è anche in grado di sintetizzare con competenza i passaggi essenziali del racconto, ben inquadrato, diretto, privo di ogni fronzolo. Questo significa però un approfondimento del tutto appiattito e una certa fretta nella conclusione, che mantiene comunque la promessa gore dell'inizio. Inutile sottolineare la bravura di Nelson.
I ratti del cimitero
Qui ci troviamo davanti all'episodio di Cabinet of Curiosities più breve (appena 38 minuti) e allo stesso tempo cinico e divertente. Alla regia il navigato Vincenzo Natali (Splice, Hannibal) che sembra unire in questo striminzito horror vittoriano gli estremi del suo stile, sintetizzando una goduriosa favoletta con tanto di morale - anche qui in contrappasso. Basato su una delle primissime storie di Henry Kuttner, prolifico scrittore sdoganato grazie a Wired Tales e tra i pilastri letterari dell'epoca d'oro della fantascienza, il mediometraggio è un felice incontro tra la commedia a' la Landis e l'orrore a' la Lovecraft. Protagonista un fantastico David Hewlett - altro feticcio deltoriano - nei panni di un profanatore di tombe in un accesso a disperato faccia a faccia con un'agguerrita nidiata di topi, sempre in anticipo sulla profanazione dei cadaveri e quindi sui preziosi sotterrati con essi.
Mai scendere al livello dei provocatori o degli stupidi, sostiene il detto, ma cosa succede se si scende nella tana più profonda dei ratti? L'occhio di Natali è immediatamente rintracciabile nella gestione delle immagini e delle inquadrature, e il racconto segue per filo e per segno anima e contenuti dell'originale, che anzi riesce perfino ad elevare grazie all'interpretazione di Hawlett e alla mano del regista. Il più breve in assoluto, è vero, ma anche tra i più belli della raccolta.
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L'autopsia
Con più di 30 crediti nel settore come produttore e video maker, David Prior si è fatto notare nel 2020 in piena pandemia grazie al suo The Empty Man (lo trovate su Disney+), debutto alla regia di un lungometraggio. Lì c'era orrore, psicologia e fantascienza in uguale misura, e non sorprende che Del Toro lo abbia voluto alla guida dell'episodio che più degli altri condensa insieme e perfettamente questa triarchia della fantasia. Pur non essendo un autore affermato, Prior dimostra nuovamente di avere un talento straordinario per il genere, soprattutto se alla base c'è anche un accenno di noir e di mistero (basato sulla storia di Michael Shea). Quando un intero gruppo di minatori viene ucciso sul posto di lavoro dall'esplosione di una bomba portata lì da un loro collega, il medico legale Carl Winters (F. Murray Abrahm) viene chiamato dall'amico e sceriffo della città per tenere una seconda autopsia sui cadaveri. Qualcosa non torna, nell'incidente, soprattutto nelle dinamiche con cui è avvenuto e nelle tante scomparse delle settimane precedenti. Che c'entri qualcosa la scia di meteoriti precipitata poco tempo prima?
Questo diretto da Prior è probabilmente il capitolo di Cabinet of Curiosities più frammentato nella costruzione, che inizia come una sorta di thriller d'indagine e finisce con spietatissimo amore splatter chiuso in quattro pareti obituarie raccapezzate in un vecchio magazzino. Tanto fa il carisma inossidabile di Abrahm insieme a un'atmosfera malata e con la fotografia curiosamente tra le più vicine a Navarro e Del Toro. Le scene artigianali delle autopsie risultano meravigliose, così come una transizione iniziale che non fatichiamo a definire da manuale. Prima accattivante, poi entusiasmante e con un certo valore intellettuale. Anche questo tra i migliori del mobiletto.
L'apparenza
Cosa fareste se la perfezione fosse a un solo numero verde di distanza da voi? Chiamereste? La risposta non è ovviamente scontata e come ci ha anche insegnato Wanna - sempre su Netflix - è un qualcosa che ha a che fare con specifiche insicurezze, recondite o meno debolezze della psiche del singolo che vengono stuzzicate per opportunismo e guadagno. Ma soprattutto, cos'è la perfezione? È quello che si domanda la regista cult Ana Lily Amirpour (A Girl Walks Home Alone at Night, The Bad Batch) seguendo una lucida quanto spietata stesura della fumettista Emily Carroll. Si tratta di uno dei due episodi della serie a traino femminile, dove la protagonista interpretata da un'agghiacciante Kate Micucci scopre un metodo per raggiungere una bellezza fino a quel momento solo desiderata, purtroppo a fronte di una trasformazione che ha dell'incredibile.
La personalità così pop e deviata della Amirpour è assolutamente perfetta per una storia che riflette in senso stretto sulla femminilità in sé e sulla dicotomia dell'essere e dell'apparire, sul ribaltamento più intimi e perverso dei concetti e sul potere venefico del capitalismo, personificato nell'accattivante volto di Dan Stevens. Tra tutti gli episodi proposti, L'apparenza è il più concettuale e al contempo di ricercato taglio mainstream, in grado di ammaliare con seducente cinematografia lo spettatore e di irretirlo alla bellezza in divenire nonostante lo scempio che si compie davanti ai nostri occhi. Sul finale siamo dalle parti dell'estasi nel cinema di Robert Eggers, seppure con tonalità differenti e molto - ma molto - più contorto e diabolico.
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Il modello di Pickman
Si tratta di uno dei racconti brevi più conosciuti e apprezzati di H.P. Lovecraft, autore per cui Guillermo Del Toro nutre enorme stima e riverenza, tanto da voler adattare da tempo immemore Alle montagne della follia (e chissà che non ci riesca in un futuro prossimo proprio grazie a Netflix). Qui funge solo da produttore e lascia la regia in mano a Keith Thomas (The Vigil, Firestarter), la cui personalità autoriale sopperisce però evidentemente alle complesse caratteristiche lovecraftiane, così uniche e ricche di straordinaria e irripetibile immaginazione. Con più di una libertà creativa che espande il racconto originale - disperdendone in effetti sintesi e fascino -, Il modello di Pickman è un buon adattamento che soffre troppo la mancanza di uno spirito registico ben più affine a Lovecraft di Thomas. Si parla ovviamente di orrore atavico e dell'oscurità più antica e ancestrale partendo dal gusto e dall'occhio artistico, da come nasce un'opera, quale la musa o il soggetto dietro a una particolare creazione.
Il punto è la reazione umana davanti al sublime, inteso anche come forma più recondita e sconvolgente di una grande paura e un'angoscia insopprimibile e letale. Distogliere lo sguardo o abbandonarsi alla seduzione dell'oscenità e della mostruosità? Riflettendo su questo e sulla natura stessa della paura, l'episodio conta anche su un bravo Ben Barnes nel ruolo di Thurber è su di un sempre superlativo Crispin Glover in quelli di Richard Upton Pickman, ruolo che si addice schiettamente alla sua introversa estroversione interpretativa. Quando si scende nelle recondite profondità del terrore lovecraftiano e nelle sue atmosfere più specifiche, comunque, l'episodio funziona a meraviglia. Ma nelle mani dello stesso Del Toro, ad esempio, sarebbe potuto essere addirittura perfetto.
I sogni nella casa stregata
In assoluto l'episodio più deludente di Cabinet of Curiosities, il che è un peccato essendo anche questo tratto da un noto racconto di H.P. Lovecraft e per giunta appartenente al Ciclo di Cthulhu. In cabina di regia troviamo Catherine Hardwick (Twilight, Dogtown), che è parte consistente del problema, ma è soprattutto a un adattamento estremamente poco fedele alle dinamiche dell'originale che si deve una perdita fisiologica d'inquietudine e pathos. Il racconto è infatti riformulato per dare una backstory più solida al personaggio di Walter Gilman e alle sue ricerche sull'occultismo e il folclore spettrale. L'obiettivo è quello di raggiungere "l'altra dimensione" e ritrovare la sorella morta in giovane età, ma questo lo condurrà alla mercé di una temibile strega intenzionata a vincere la propria mortalità. L'episodio diretto dalla Hardwick ha davvero poco a che fare con le simmetrie narrative dell'originale, meno da incubo e più posticcio in senso fantasy nonostante il mantenimento del tono surreale.
Non convince nemmeno Rupert Grint nel ruolo da protagonista. Siamo certi che come per Il modello di Pickman questa funzionalità parziale abbia a che fare con l'enorme e possente lore e le tante fascinazioni relative a Lovecraft, impossibili da imprigionare sotto altre decise personalità artistiche che non hanno totale comunione d'intenti con le sensibilità dell'autore a tutto tondo. E soprattutto il finale rivela le criticità tonali dell'episodio rispetto al racconto di partenza, dove si inventa spudoratamente distaccandosi da un testo tutto sommato ben delineato ed efficace, puntando addirittura a una tacita ironia che davvero poco di addice allo scrittore di Providence. Una cosa da 10 e lode c'è, però: l'adattamento del famiglio Brown Jenkin, che sembra uscire direttamente dalle pagine del 1933.
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La visita
Diretto dallo psichedelico Panos Cosmatos, già dietro al controverso Mandy con Nicolas Cage, La visita è l'episodio più affine al concetto di collezionismo a monte del progetto Cabinet of Curiosities. Ambientato negli anni '70 per ovvi stilemi formali dell'autore e perché il periodo era di scoperta e sperimentazione lisergica, la storia sembra un furioso e scapestrato miscellanea tra La fabbrica di cioccolato e La fortezza di Michael Mann, dove l'eccentrico miliardario collezionista Lionel Lassiter (un eccezionale Peter Weller dal look a' la David Carradine) chiama a raccolta attorno a sé le menti considerate da lui più brillanti in circolazione tra scienziati, romanzieri, musicisti e spiritisti per mostrargli "un oggetto la cui ricerca è stata ardua e il costo spropositato, qualcosa di mai visto prima". Quasi per la sua totalità, l'episodio è ambientato in una stanza circolare con i protagonisti seduti in cerchio intenti a interloquire tra loro, a bere e a drogarsi. Tutto sotto una luce sgranata, arancione e accecante, come a volerci far sperimentare la distorsione allucinogena che vivono i personaggi in prima persona.
L'escamotage narrativo e visivo è un pretesto per addentrarsi in una dialogo piuttosto attivo e lungimirante sul valore dei gusti e dei desideri, arrivando poi allo sblocco del potenziale latente dell'uomo attraverso "il prodotto scientifico", così da poter comprendere persino l'incomprensibile. Degli otto episodi proposti, La visita è in assoluto il più straniante e discorsivo, con una musica di sottofondo synth che penetra fino alle ossa fino all'assurdo finale. Allo stesso tempo, forse perché anche scritto dallo stesso Cosmatos insieme al collega Aaron Stewart-Ahn (co-sceneggiatore di Mandy), il film è pure il più libero e artisticamente espressivo, cinematograficamente appagante. Ma qui non esistono mezze misure: o state al gioco o lo respingete con forza. Cosmatos è così: prendere o lasciare. E in un certo senso è proprio questo il suo plus valore.
Il brusio
Ottavo e ultimo episodio della raccolta di curiosità di Guillermo Del Toro, Il brusio è la seconda storia della serie scritta dallo stesso autore e quindi originale. Si avvertono infatti delle sensibilità tipiche del regista messicano, soprattutto per quanto riguarda il sottogenere degli_ hunted house movie_ (forte richiamo a Crimson Peak o a La Spina del Diavolo) e in generale con i tormenti dei protagonisti che s'interfacciano con quelli dei defunti. Perché sì: Il brusio è una storia di fantasmi. Tutto parte dallo studio degli uccelli da parte di una coppia di ornitologi formata da Essie Davies e da Andrew Lincoln, davvero genuini ed emozionanti nei rispettivi ruoli. Ospiti per lavoro in una vecchia casa al centro di un tranquillo isolotto, qui la donna comincia ad avvertire strane ed inquietanti presenze attorno a lei, le stesse che il marito non percepisce. Si innesca così questo gioco al massacro psicologico tra sofferenze e non detti della coppia e un tormento dell'anima sempre più graffiante che porta lei a interessarsi dei precedenti inquilini della casa. Seppure concettualmente e strutturalmente il più semplice, Il brusio si rivela anche un episodio di estrema compostezza ed eleganza, elementi d'altronde tipici dello stile di Jennifer Kent, regista scelta per l'opera.
Forse persino più di James Wan ma senza virtuosismi di sorta, l'autrice australiana è tra le più sorprendenti nella gestione dei silenzi e degli spazi in chiave orrorifica, talento che traspariva già nel suo esordio con The Babadook, dove l'impostazione della scena era sapientemente studiata per dare forma e terrore a ombre e vuoti. Qui fa esattamente lo stesso lavorando in sottrazione estatica ma dando un carico emotivo non indifferente alla coppia di protagonisti, che infatti spicca rispetto a tutti gli altri. Non è solo un racconto di una casa infestata, ma la storia di un amore infestato da spettri troppo dolorosi da scacciare. Semplice e raffinato, è sicuramente l'episodio dalla drammaturgia più articolata e convincente, per una chiusura spaventoso e sentimentale con un accento di classe.
Conclusioni
Tirando in conclusione le somme di Cabinet of Curiosities, la serie antologica creata da Guillermo del Toro riunisce in un'unica soluzione tanti talenti di genere differenti, valorizzando e supportando ognuno di essi tanto nelle forme quanto nei contenuti, realizzando un insieme eterogeneo e straordinario di racconti della mezzanotte come mai forse si era visto prima. C'è chi funziona di più e chi invece di meno, ma la qualità generale è sempre elevata e le idee visive e concettuali alla base delle storie riconoscibili e riconducibili senza fatica agli autori chiamati a dirigerle. Un progetto magnifico che speriamo trovi successo e continuità.
Perché ci piace
- Le presentazioni di Guillermo del Toro tra Hitchcock e Serling.
- Il modo in cui traspare la personalità artistica di ognuno dei singoli registi scelti.
- C'è davvero tanta creatività, tra artigianalità e virtuosismi di sorta.
- Non c'è un solo episodio che possa dirsi poco ispirato o riuscito...
Cosa non va
- ... Ma è un peccato che i due tratti da Lovecraft siano i meno convincenti di tutti.