Recensione Passioni e desideri (2011)

Dopo aver conquistato l'Oscar per la regia con lo strabiliante City of God nel 2004, Meirelles si è dedicato a storie dal carattere più europeo utilizzando sempre una narrazione asciutta e sintetica. Uno stile, questo, che continua ad applicare anche in 360, facendolo diventare il punto di forza di un film altrimenti ad alto rischio di complessità.

Girotondo d'amore

Michael è in viaggio d'affari a Vienna per concludere una trattativa importante, mentre sua moglie Rose a Londra ha una relazione passionale con un giovane fotografo brasiliano scoperto dalla sua galleria d'arte. Più o meno nello stesso momento Laura capisce di non poter più sopportare il tradimento del fidanzato e una giovane ragazza slava decide di diventare una prostituta con il nome d'arte Blanka. Spostandosi dall'Europa agli Stati Uniti, in un affollato aeroporto di Detroit vari personaggi bloccati dalla neve continuano ad intrecciare momentaneamente i propri destini. Si tratta di John, alla costante ricerca di una figlia ormai scomparsa da molti anni e di Troy, tornato in libertà dopo aver scontato una lunga condanna per reati sessuali. Tutti loro, senza escludere un dentista musulmano segretamente innamorato della sua assistente sposata con l'autista di un mafioso russo, contribuiscono a raccontare a 360 gradi i difetti e i misteri alla base delle relazioni umane che, pur attraversando paesi e culture diverse, non sembrano cambiare poi molto.


Portare sullo schermo un'opera di Arthur Schnitzler non è mai stata una sfida facile da vincere per un regista. Nonostante la curiosità dimostrata nei confronti del mezzo cinematografico per gran parte della sua vita professionale, lo scrittore e drammaturgo austriaco ha lasciato un'eredità complessa da rileggere secondo le forme e gli stili artistici dei nostri tempi. Con il suo monologo interiore, attraverso il quale i personaggi hanno la possibilità di mostrare il proprio carattere e le difficoltà che li ostacolano, si sono misurati molti autori illustri come De Mille e il più contemporaneo Stanley Kubrick (Eyes Wide Shut), lasciandosi sedurre, forse eccessivamente, dai suoi trabocchetti psicologici. Una trappola in cui non cade, invece, Fernando Meirelles nella realizzazione di 360, film ispirato alla piece teatrale Girotondo. Dopo aver conquistato l'Oscar per la regia nel 2004 con lo strabiliante La città di Dio - City of God, il regista brasiliano si è dedicato a storie dal carattere più europeo con The Costant Gardener, tratto dal romanzo omonimo di John Le Carre, e il meno fortunato Blindness - Cecità utilizzando sempre una narrazione asciutta e sintetica. Uno stile, questo, che continua ad applicare anche in 360, facendolo diventare il punto di forza di un film altrimenti ad alto rischio di complessità.

In questo modo, Meirelles, seguendo la struttura circolare dell'opera di Schintzler (la vicenda si apre e si chiude a Vienna), utilizza i dieci protagonisti a sua disposizione per costruire un intreccio facile da seguire e non appesantito da riflessioni più adatte al linguaggio teatrale e letterario. Il risultato è una vicenda che, ricostruendo un ritratto sociale dei nostri giorni, concentra la sua attenzione soprattutto sulla complessità e la casualità dei sentimenti in cui è facile riconoscersi. Così, forte di una sceneggiatura attiva basata soprattutto sugli spostamenti geografici e l'evoluzione dei diversi personaggi, il regista non ricorre a scelte estetiche eccessivamente raffinate, ma utilizza la macchina da presa come uno strumento per registrare senza troppa pietà le molte facce dell'amore. La passione che sconvolge, i rimorsi del tradimento, il timore dell'abbandono, l'accettazione della perdita e il sesso che si trasforma in delitto; questo e molto altro l'obiettivo riesce a rubare dai volti che Meirelles segue ossessivamente senza mai lasciarsi andare a facili giudizi o preconcetti. Anzi, fatto un passo indietro di fronte all'enormità dell'argomento, lascia che la fragilità di Jude Law, la colpa di Rachel Weisz e la consapevolezza paterna di Anthony Hopkins parlino direttamente allo spettatore, conducendolo con naturalezza all'interno di un racconto che non offre risposte certe, ma solo un numero infinito di diverse soluzioni.

Movieplayer.it

3.0/5