Dopo la misteriosa esclusione all'ultimo minuto dal concorso della passata edizione della Mostra di Venezia e il rifiuto di essere inserito nella sezione Orizzonti come film d'apertura, l'atteso lavoro di Giorgio Diritti sulla strage di Marzabotto approda al Festival di Roma in competizione, e il suo primo merito appare subito evidente: finalmente un bel film italiano. Se gli altri due titoli di casa nostra avevano infatti lasciato l'amaro in bocca, L'uomo che verrà torna invece a ridare dignità al cinema del fu Belpaese, raccontando con intensità e discrezione uno degli episodi più tragici che hanno interessato l'Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Regista, montatore e produttore del film, Diritti decide di raccontare, attraverso lo sguardo di una bambina di otto anni, il rastrellamento ad opera delle truppe naziste che portò all'eccidio di 770 persone, per lo più donne, vecchi e bambini, nell'area di Marzabotto, a pochi chilometri da Bologna. Lo fa stando dalla parte della povera gente, di cui racconta la quotidianità nei mesi che precedono il massacro. Prodotto da Aranciafilm e RaiCinema, il film arriverà nelle nostre sale il 29 gennaio prossimo, distribuito da Mikado. Il regista Giorgio Diritti torna al Festival di Roma a qualche anno di distanza dalla presentazione del miracoloso Il vento fa il suo giro, nella speranza di riuscire a mettere ancora d'accordo pubblico e critica con il suo nuovo lavoro, che ha presentato oggi alla stampa insieme agli attori Claudio Casadio, Alba Rohrwacher, Maya Sansa e alla piccola e bravissima Greta Zuccheri Montanari, vera anima della pellicola.
Giorgio Diritti, ci racconta l'incontro con i sopravvissuti alla strage e quanto le loro testimonianze hanno contribuito alla definizione della sceneggiatura?
Giorgio Diritti: Sicuramente l'apporto sia della vicenda umana, che soprattutto dei sentimenti e delle dimensioni emotive di queste persone, è stata fondamentale. E' stato come fare un percorso di sofferenza insieme a loro, una sofferenza iniziata in quei giorni che non è ancora finita purtroppo, perché persone che hanno subito una tragedia così grande restano con un senso di colpa per i familiari visti morire, oltre a una grande angoscia. Le esperienze umane sono quindi servite molto anche in fase di elaborazione della scrittura. La famiglia protagonista è frutto d'invenzione, ma ogni personaggio ha qualcosa delle persone vissute in quel periodo e che non ci sono più.Perché ha scelto di girare il suo film in dialetto?
Giorgio Diritti: La scelta di girare nel bolognese antico serviva alla ricerca di coinvolgimento emotivo e di un realismo che portassero lo spettatore a entrare in quell'epoca. In fase di scrittura e nell'allestimento del film, ci si è accorti che il bolognese aveva una valenza legata ai film degli anni '70, quelli coi camionisti, e che quindi questa sensazione poteva allontanare dal film. Si è giocata perciò questa carta e gli attori sono stati molto bravi nelle loro interpretazioni, perché questa scelta è stata effettuata solo due settimane prima dell'inizio delle riprese. Credo che valga la pena affrontare la fatica del leggere i sottotitoli per entrare a fondo nell'atmosfera della storia.
Quanto è ancora vivo questo dialetto oggi?
Giorgio Diritti: Molto poco. In realtà sopravvive un po' nelle zone di montagna, ma nel bolognese curiosamente chi parlava dialetto veniva considerato ignorante e quindi man mano si è persa questa radice.
Come mai c'è questa tendenza all'uso del dialetto nel cinema, come conferma anche il recente Baaria di Giuseppe Tornatore?
Giorgio Diritti: L'utilizzo dei dialetti fa parte di un percorso di identità di realismo. Ognuno di noi fa questa scelta per motivi diversi, ma il dialetto dà sempre un sapore e un suono alla vicenda, che l'italiano ha perso. Ricordo anni fa un film come La capagira che era tutto in barese, e questo rappresentava proprio la sua forza. Alcune storie hanno senso in relazione a questo tipo di linguaggio.Qual è stata dal punto di vista visivo la sua idea nella realizzazione del film?
Giorgio Diritti: Il lavoro assieme al direttore della fotografia, Roberto Cimatti, è nato dall'osservazione delle fotografie di quell'epoca, che erano nella Cineteca di Bologna e che sono state analizzate e studiate. Poi si sono guardate una serie di fotografie a colori fatte da alcuni soldati americani. Si è poi passati ad osservare la produzione artistica dell'800 e 900 relativa alla campagna. Roberto ha fatto un'indagine su tutti quei sapori e quei colori e questi elementi si sono poi fusi insieme.
Come si è posto in fase di scrittura e di realizzazione il problema di una iconografia che a tutti i livelli ha ritratto il nazismo?
Giorgio Diritti: In realtà, la ricerca è stata sulla realtà dei fatti. Nelle testimonianze raccolte i soldati nazisti erano tutti molto giovani, persone cresciute durante il nazismo e formate in un certo modo. La logica per loro era di considerare alcuni esseri umani, in particolare i 'traditori' italiani, come sottospecie, come sottoumani. Per cui uccidere una donna era uguale a uccidere una mucca, tanto più in una dimensione bellica in cui si doveva ripulire un territorio. Ho cercato di evitare di cadere nello stereotipo, utilizzando tutti gli elementi, sia quelli tratti dalle interviste che quelli tratti dalla ricerca, per giungere il più possibile alla verità, una realtà storica ben precisa dove tutte le cose raccontate sono in qualche modo accadute. Volevo raccontare la drammaticità di uomini che arrivano a uccidere altri uomini con una naturalezza che non gli appartiene.Al centro del film c'è qualcosa di molto forte, pesante e importante, una strage che in tempi di revisionismo è stata raccontata in diverse maniere.
Giorgio Diritti: Ciò che il film racconta ha basi storiche attente, poi chiaramente nell'intenzione mia sono state effettuate delle scelte. La guerra porta le persone a modificarsi, a fare delle cose che mai si penserebbero. Uno dei membri della famiglia che si unisce ai partigiani, parte dicendo che non vuole sparare, ma poi arriva al gesto estremo di uccidere un tedesco a sangue freddo. Nell'evoluzione delle cose ci trasformiamo e ognuno di noi può avere atteggiamenti incoerenti, sia nell'ambito dei partigiani che dei tedeschi. E' indubbio che la vicenda di Monte Sole rappresenti uno sterminio di civili, di persone come noi. Qualcuno ha cercato di dire che i partigiani avrebbero dovuto fare di più. Forse è vero che in quel momento il comando non aveva strutturato una linea difensiva interessante, erano disarmati, ma è anche indubbio che nessuno avrebbe mai immaginato che le SS avrebbero fatto una cosa del genere, perché c'era una dimensione di presunte regole di comportamento. Le persone andavano in Chiesa perché era un posto sicuro, i soldati cercavano gli uomini per mandarli a lavorare in Germania. Avviene poi qualcosa di mostruoso e tutto riemerge, anche le paure dell'uomo. Spesso raccontiamo vicende di eroi, ma in realtà la maggior parte degli uomini è lì che non sa che fare.
Il titolo è piuttosto impegnativo. Quando è nato?
Giorgio Diritti: E' un titolo che ci interroga sull'oggi e sul futuro, su cosa sarà la società e l'uomo del domani. Il titolo allargava il senso specifico del film a una dimensione più ampia. La vita nostra va difesa per quelle che sono le cose importanti per noi: innamorarci, fare figli, riuscire a migliorare la condizione sociale. La guerra è qualcosa di estraneo che purtroppo fa parte del nostro percorso storico, perché probabilmente i nostri avi sono stati degli assassini. Spero e sogno che in un giorno sia raccontata questa cosa come una vecchia soluzione del problema. Il desiderio è la pace, il rispetto di tutti, arrivare a non definire più una persona diversa. Dobbiamo lottare per difendere nella società tutti i valori che portano alla convivenza civile.Che ruolo può avere un film di questo tipo nello smuovere la situazione attuale relativa alla vicenda?
Giorgio Diritti: Non so se oggi si possa colmare il vuoto di questi sessant'anni. La Guerra Fredda ha trasformato le dinamiche dei rapporti e ha nascosto la verità in tante situazioni. Per fortuna, a distanza di molto tempo, qualcosa è venuto fuori. Questo non restituisce la vita alle persone che hanno perso o quello non seminato a livello di memoria comune, ma forse il film da questo punto di vista può essere un elemento che alimenti questa memoria e porti alla convivenza civile e a migliorare il nostro modo di vivere.
Come avete maturato la scelta di raccontare questa vicenda da un punto di vista umano e non storico?
Giorgio Diritti: Mi è venuto istintivo, perché volevo portare l'accento sulla dimensione della vita. La presenza del fascimo come elemento opprimente e condizionante c'è, si sente il peso di una non libertà, ma non volevamo finire nella dimensione del film storico.
Il suo è un film indipendente. Giorni fa i cineasti italiani sono stati definiti 'parassiti', mentre Del Noce ha detto che siete dei 'mantenuti di Stato'. Come si pone lei di fronte a queste considerazioni?
Giorgio Diritti: Ci sono persone che parlano gratuitamente, senza tenere presente una cosa che tra l'altro cito nel film, cioè come l'educazione faccia parte del futuro della società. La cultura è ciò che permette alla società di evolversi e che dà la possibilità di avere una dimensione sociale migliore. Oggi noi raccontiamo delle vicende ancora dolorose rispetto alla guerra. Forse la mia piccola ambizione è che magari tra cinquecento anni si possa parlare della guerra come qualcosa che fa parte del passato dell'uomo, nella stessa dimensione con cui parliamo oggi del cannibalismo. Non penso che qui ci siano dei mantenuti e spesso credo che queste persone che si lanciano in certe affermazioni debbano pensare anche a come sono arrivate dove sono ora.
Come ha maturato la scelta di prendere un uomo di teatro come Claudio Casadio tra i protagonisti del suo film?
Giorgio Diritti: L'incontro con Claudio è nato vedendo un suo spettacolo, il Pollicino. Mi ha colpito sia per la sua grande capacità di incantare adulti e bambini, sia per il suo volto. In un film che andavo a realizzare, l'idea di un volto così forte era fondamentale. Ho sempre pensato a lui come un albero, mi pareva naturalmente parte di quel territorio, di quella famiglia, e questo era importantissimo. Nel percorso di realizzazione del film ha fatto davvero moltissimo, sia perché viene dal mondo del teatro, e sappiamo che spesso questo passaggio non è facile, sia perché romagnolo e imparare per lui il dialetto bolognese era complicato.Claudio Casadio: Io lavoro molto in teatro e non avevo mai pensato al cinema, perché avendo la mia compagnia sono molto impegnato col mio lavoro. Quando Giorgio mi ha proposto il film sono stato contento perché conosco bene la storia di Marzabotto. Vengo da una famiglia di braccianti, mio padre è stato in un campo di concentramento, ed ero contento di partecipare e dare la mia testimonianza. Quando mi ha affidato il ruolo ho pensato fosse un incosciente. Dopo l'entusiasmo iniziale ci sono state però anche le polemiche, perché il lavoro di un attore di teatro è diverso da quello cinematografico. Ho dovuto sottrarre molto, ho cercato nella prima parte di restituire la durezza e la fatica di questo uomo che deve portare avanti una famiglia composta principalmente da donne; nella seconda parte ho cercato di mettere il dolore di quest'uomo che vede distrutto in una notte tutto quello che ha e vede crollare i suoi valori e i suoi principi. E' il dolore dei sopravvissuti, di quelli che perdono chi sta loro attorno. Alla fine mi è piaciuta la scelta di Giorgio di questo personaggio che va incontro ai tedeschi per morire perché non riesce a sopravvivere a questo enorme dolore interno.
Come avete lavorato voi attori sul dialetto emiliano antico?
Maya Sansa: Abbiamo avuto un fantastico insegnante, Giorgio Monetti, un signore della zona che per sua fortuna è sopravvissuto alla strage. E' stato un grande aiuto, anche in fase di scrittura, per delle piccole sfumature. Essendo un dialetto molto specifico della zona e antico abbiamo avuto bisogno d'aiuto sull'accento. Abbiamo dovuto prima imparare la musica delle nostre battute, e poi riuscire a inserire le emozioni, facendo parlare i personaggi, altrimenti rischiavamo solo di ripetere una melodia. Ci siamo comunque divertiti molto a farlo, perché le cose difficili divertono sempre gli attori.
Quello di Diritti è un film di volti antichi. Che lavoro avete fatto voi sul corpo e sul volto per risultare credibili?
Alba Rohrwacher: Ad aiutarci molto è stata prima di tutto la fiducia che Giorgio riponeva in noi. Poi ovviamente c'è stato un lavoro sullo specifico, con i costumi, il trucco, i capelli, e quello aiuta un attore a diventare altro da sé. Ci siamo mischiate alle persone con cui abbiamo lavorato perché questo era il nostro obiettivo, annullarci per raccontare insieme a questo gruppo di grandissimi attori una storia che sentivamo la necessità di raccontare.Greta Zuccheri Montanari, com'è stato recitare per la prima volta in un ruolo in cui non aveva voce?
Greta Zuccheri Montanari: Quando ho saputo che non parlavo mi è sembrato quasi naturale, visto che era la prima volta che recitavo. Qualche volta mi veniva da parlare e dire qualcosa, ma non potevo. Alla fine però ho cantato, perché volevo esprimere la solitudine, ma anche il ricordo, e quando voglio esprimere un pensiero mi metto a cantare.