In una società come la nostra, con un mondo del lavoro profondamente modificato rispetto al passato, il problema del precariato trova rappresentazione al cinema attraverso la commedia, perché probabilmente di certe situazioni forse è meglio riderne. Dopo Tutta la vita davanti di Paolo Virzì e il più recente Fuga dal call center, la Generazione 1000 euro torna sul grande schermo grazie a Massimo Venier che insieme a Federica Pontremoli ha adattato il libro omonimo di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa. Protagonista è Matteo, un trentenne laureato in matematica ma che si ritrova a lavorare controvoglia nel settore marketing di una multinazionale. Attorno a lui un popolo di precari del lavoro e della vita, tra coinquilini che passano il proprio tempo giocando alla Playstation e giovani bellezze alle prese con i problemi di carriera. Il film, che arriverà nelle sale venerdì 24 aprile distribuito in circa 300 copie dalla 01, è stato oggi presentato a Roma, alla presenza del regista Venier, della co-sceneggiatrice Pontremoli e degli attori Alessandro Tiberi, Valentina Lodovini, Carolina Crescentini, Francesco Mandelli e Francesco Brandi, i quali hanno parlato, tra le altre cose, anche del mestiere dell'attore che non sfugge alle logiche di un precariato che ormai sembra aver condizionato anche il nostro modo di pensare.
Massimo Venier, perché un film sul precariato?
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Quanto siete rimasti fedeli al libro in fase di adattamento?
Massimo Venier: Abbiamo scelto di distaccarci dal libro perché questo raccontava un tipo di ragazzo con le sue difficoltà di sbarcare il lunario con pochi euro al mese. Noi prendiamo in considerazione cinque personaggi che rappresentano diversi modi di affrontare la vita e il problema del lavoro. Gli autori del libro sono molto attenti nel raccontare la pratica del quotidiano del precario, mentre noi abbiamo raccontato una storia. Siamo partiti dal titolo del libro e abbiamo preso spunti importanti, come per esempio la città di Milano che si prestava benissimo a questo tipo di racconto, ma il nostro compito era quello di offrire al pubblico una storia. Comunque sia, li abbiamo incontrati, gli abbiamo fatto leggere il trattamento e loro da "esperti" del precariato ci hanno dato dei consigli.
Federica Pontremoli: Una volta stabilito l'approccio sia nei confronti del libro, cioè l'ispirazione libera, che del tema, abbiamo cominciato a delineare delle storie le cui linee principali sono presenti anche nel libro, di cui spero non abbiamo tradito il sentimento. Volevamo scoprire i lati meno vittimisti di questi giovani, tentando un approccio più vivo che facesse andare avanti le storie in maniera più attiva. Il precariato viene sì vissuto da questi personaggi, ma anche affrontato con differenti anteggiamenti: con sarcasmo, con ottimismo, con grinta e voglia di far carriera, con l'attaccamento quasi morboso al lavoro o con la voglia di perderlo. Più che mettere in luce il problema, la nostra intenzione era mostrare la reazione ad esso.
Oggi la condizione del precariato viene vissuta in modo diverso dai giovani?
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Il film documenta questa realtà, ma non ha avuto curiosità di capire dove stanno i soldi dei precari?
Massimo Venier: In realtà questa cosa nel film c'è, il problema di chi ha certe colpe esiste in filigrana. Abbiamo deciso però di non affrontare questo tema da un punto di vista sociale e politico, perché non sono bravo a raccontare storie che non sono nelle mie corde. E' vero forse che oggi i ragazzi non si facciano troppe domande riguardo al problema, ma non perché siano disimpegnati, ma perché danno per scontate alcune situazioni, come per esempio il nepotismo, che vengono vissute come regole della vita. Per la mia esperienza, se uno prova a eccitare gli animi su questi argomenti di solito c'è un sorriso sarcastico da parte dei diretti interessati. La società che abbiamo dato ai ragazzi è questa purtroppo.
Federica Pontremoli: La scelta a priori è stata quella di cercare di scrivere un film in cui l'ambientazione mentale ed emotiva dei ragazzi fosse il precariato, e non le cause e le soluzioni del problema. Abbiamo cercato di raccontare come questa situazione sociale, economica e culturale condizioni la vita di un ragazzo di trent'anni oggi.
Nel film, a distinguersi per la capacità di affrontare i propri problemi in ambito lavorativo sono soprattutto le donne. Perché?
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Valentina Lodovini: In generale, le donne sono più abituate a risolvere problemi. La cosa più bella di Beatrice, il personaggio che interpreto, è che ha un presente da costruire e non si arrende di fronte a niente, si modifica e si reinventa a seconda degli ostacoli, senza lamentarsi. Certo, non è immune dai momenti di rabbia, spesso sbraita da sola, ma è umana.
Carolina Crescentini: La mia Angelica sa semplicemente quello che vuole, ha un obiettivo e fa di tutto per raggiungerlo, lavorando ogni giorno per fare carriera. E' felice e la cosa che mi piace di lei è il suo sorriso sincero, anche se mi piacerebbe vederla tra cinque anni. In fondo, è una donna che ha sempre un trolley con sé, dovendo viaggiare ogni giorno da un capo all'altro del mondo, ma non ha un amico o qualcuno che la ami e anche per questo si lega a Matteo. Il suo problema è che, investendo troppo nella carriera, si ritrova con troppo poco nella sua vita privata.
Come sono invece i personaggi maschili del film?
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Francesco Mandelli: Il personaggio di Francesco è quello più scanzonato, un ragazzo positivo, che gioca sempre alla Playstation e che cerca di tamponare ogni problema con una toppa. Lui decide di osservare tutto un po' in disparte, senza mai mettersi in gioco veramente, vive in un mondo che gli fa procrastinare le sue scelte. Il suo non prendere la vita troppo sul serio rappresenta forse una buona soluzione immunitaria a questo momento di crisi.
Francesco Brandi: Il mio personaggio mi fa molta tenerezza. Nella mia pur breve carriera, rappresenta il primo personaggio che interpreto senza alcuna patologia, né fisica né mentale. Ciò che lo caratterizza è l'attaccamento morboso a un lavoro forse neanche troppo interessante e che io non riesco a comprendere, ma che mi ha interessato fin dal primo momento.
Voi attori vi considerate dei privilegiati o nel vostro mestiere vi sentite un po' precari?
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Francesco Brandi: Io più che un precario, mi sento un disoccupato. La differenza sostanziale è che un attore si sceglie il lavoro nella speranza che vada bene. Il precariato ha però aiutato il lavoro dell'attore. Prima col posto fisso il lavoro dell'attore era ai bordi della società, oggi se ci va bene lavoriamo 4 o 5 mesi all'anno. Questo livellamento del precariato ha favorito la psicologia dell'attore che sceglie di sua volontà di fare il precario. Siamo comunque tutti noi attori un po' incoscienti ed è naturale fare errori.
Valentina Lodovini: Il nostro lavoro ha nella sua essenza l'essere precario. A tutti gli attori è capitato di passare momenti di depressione, di paura, di insicurezza, e questo ci permette di non abbassare mai la guardia. Forse viene sottovalutato questo lavoro, considerato un gioco: lo è, ma solo in parte, perché dietro c'è anche grande fatica, solo che spesso si preferisce vedere solo i lustrini e i fiocchetti. Il nostro mestiere è fatto però di tante cose, di gioia, di esaltazione, di noia e di illuminazione. Noi giovani di oggi siamo comunque una generazione che non si arrende, basta con questi bamboccioni!
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Francesco Mandelli: Io in realtà mi sento abbastanza fuori luogo in questo discorso. Ho iniziato a lavorare nel mondo dello spettacolo che facevo ancora la quinta liceo. Andrea Pezzi mi scelse per un programma e da allora, da quando avevo diciotto anni, non ho mai smesso di lavorare. Questa precarietà dell'attore io non l'ho mai sentita, e vorrei essere l'eccezione che conferma la regola.