Muri puliti, popoli muti. Una tagline perfetta per raccontare cosa sia il documentario ideato, visto e scritto da GECO. Per qualcuno un writer, un artista; per altri, solo e soltanto un criminale imbratta-muri. Certo è, la verità almeno 'sta volta, non è questione di equilibrio. Anzi. GECO potrebbe essere un rivoluzionario, un visionario, un termometro ribelle e inquieto, che sfida la falsità a colpi di vernice. Ecco insomma The Art of Disobedience, ottanta minuti costruiti sulla musica e sul montaggio. Nel mezzo, una storia orgogliosamente romano-centrica, ma esportata in tutta Europa.

Non c'è dubbio che l'opera sia una folgorazione: concepita in modo carbonaro (produzione totalmente indipendente), riluttante verso lo status symbol di un cinema che preferisce l'industria all'espressione. L'abbiamo vista in anteprima, alla vigilia di un tour che, ci scommettiamo, continuerà a fare il tutto esaurito. Per citare un famigerato gruppo hip-hop della Roma più popolare, questo non è un film né un documentario nel senso stretto, piuttosto è l'assalto frontale che sfida e ridicolizza il potere e l'ordine costituito.
The Art of Disobedience: il lungo viaggio di GECO
Al centro, tagliando verticalmente il viaggio di GECO, la scena romana dei writers: un gruppo d'amici, generazioni che si intersecano, andando oltre il parossistico per recuperare quegli spazi urbani a colpi di tag, di scritte, di colori, di adesivi e di spudorati sfregi. Si inizia con Pietro Maiozzi aka BOL, uno dei primi graffittari romani, e poi ecco TUFF, una sorta di spettro; Giorgia Curti aka breezy g, una delle prime writer della Capitale; ancora lo scrittore Valerio Mattioli; il writer Napal, l'exhibition manager Domiziana Febbi; il critico d'arte Valerio Bindi.

E poi? Poi ovviamente GECO. Un fugace Uomo ragno ripreso di spalle, Nike ai piedi, felpa nera e volto oscurato. GECO, come J. D. Salinger, come i Daft Punk, come Omero, Bansky e Liberato. GECO che ti mette le ali, come scrive beffardo in cima al Mercato Metronio di Roma, a Via Magna Grecia. Sempre GECO, zaino in spalla, che viaggia dalla Capitale fino a Lisbona e Atene. Città tutt'altro che casuali, avendo la stessa temperatura luminosa di Roma. Una luce inconfondibile, che GECO inganna, agendo di notte, per rivelare al mattino una verità secolare: la ribellione può essere solo illegale.
E allora, tra i ritornelli dei gabbiani e le sirene che strillano, dal centro alla periferia, si apre il palcoscenico: il writer racconta e si racconta senza parlare, mostrando e dimostrando un ego gigante tanto quanto le sue opere bombing (vengono definiti bomber coloro che coprono numerose superfici con tag o throw-up, semplici e veloci da realizzare). Opere e concetti, nonché l'esatta inflessione urbana, osservabile ovunque e dovunque, alzando gli occhi al cielo. Muro dopo muro, fino alle nuvole, ubiquo come fosse una sorta di inafferrabile presenza.
Se il decoro è una forma di censura

Per questo GECO è fascino e rottura. Bucaniere metropolitano, la spinta all'alto e mai al basso. Un documentario, The Art of Disobedience, che diventa allora manifesto e contesto, storytelling di rivolta e di resistenza. Concitato nel ritmo e dilatato nello spazio, funambolico nella regia - spesso in POV, grazie alle Go-Pro -, riscrive l'idea di una disobbedienza che genera nuove leggi morali, andando oltre la trasgressione. Se il decoro è una forma di censura verso l'accento di una città (figuriamoci verso una città come Roma), l'approccio di GECO, rivisto nel suo film, è la legittima presa di posizione, ostinata e contraria. Punto di riferimento eppure bussola senza magnete, anarchica e smodata. Un adesivo dopo l'altro su quel cartello fermi al semaforo; una scritta che ridisegna il paesaggio, plasmandolo e riconquistandolo. Perché GECO è ovunque, GECO è Roma, GECO è casa.
Conclusioni
Un documentario, un film, un'opera-manifesto. Il writer GECO racconta se stesso e racconta, senza mai parlare, la scena dei “graffittari” romani. Ne esce così uno spaccato poetico, quasi filosofico, di resistenza sociale e politica, traducendo al meglio le vibrazioni e le lingue di uno spazio urbano – e popolare – in grado di esaltare il concetto di rivoluzione e disobbedienza.
Perché ci piace
- Lo stile registico funziona.
- I vari punti di vista.
- Lo spaccato sulla storia dei graffiti.
- L'intraprendenza narrativa e poetica.
Cosa non va
- Forse il finale si allunga un po'.