Lo definiscono attore hollywoodiano nonostante abbia fatto solo un film a Hollywood, ma è una definizione che lui stesso rifiuta: Gael García Bernal è prima di tutto un autore, un fine narratore della realtà umana che da sempre si distingue per la meticolosa scelta delle pellicole a cui regalare il suo talento. Questa attenzione gli ha regalato un curriculum grondante di grandi nomi, da Pedro Almodóvar ad Alfonso Cuarón, passando per Jim Jarmusch, Alejandro González Iñárritu o Pablo Larrain, che lo ha scelto per interpretare l'antagonista del suo Neruda presente al Festival di Cannes e in seconda battuta al Biografilm Festival di Bologna.
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Un curriculum che farebbe impallidire qualsiasi collega, e che pure non sembra abbastanza per fargli montare la testa: sguardo luminoso e sorriso sempre sulle labbra, l'attore messicano si rimbocca le maniche e si barcamena tra il suo ruolo di attore e quello di organizzatore di Ambulante Documentary Film Festival, un festival itinerante che viaggia per tutto il Messico portandosi dietro uno schermo cinematografico e tanti documentari, selezionati da lui e da Diego Luna, insieme a Pablo Cruz ed Elena Fortes. Un'idea semplice quanto geniale, che ha permesso a piccoli paesi impossibilitati ad avere una sala di poter godere di nuove prospettive documentarie. A Bologna Gael Garcìa Bernal ha parlato del suo progetto, di Mozart in the Jungle (in onda da mercoledì 29 giugno su Sky Atlantic HD, che gli ha recentemente fruttato il premio come "Miglior attore protagonista in una serie commedia o musicale" per il suo ruolo di Rodrigo De Souza) fino alla sua collaborazione con Larraìn e la genesi di Neruda.
Cosa lo ha spinto a creare l'Ambulante Documentary Festival, e quale è stata la Genesi del progetto?
Comincerei con il raccontare un importante aneddoto: ricorderete c'è stato un periodo in cui esistevano le videocassette e non era semplice reperire i film se si era in un piccolo paese - e neppure nelle grandi città, dove si potevano vedere solo i film principali che venivano trasmessi nelle sale cinematografiche. Quando alcuni miei amici iniziarono a fare dei documentari più particolari, quasi clandestini, con i loro viaggi in giro per il mondo iniziarono a portarmi videocassette, e io mi chiedevo come fosse possibile che alcuni documentari cosi belli di loro colleghi non avessero la possibilità di essere mostrati in sala, perché erano davvero particolari: mi ricordo ad esempio di un film che mostrava Città del Messico, che per la prima volta ho visto raccontata da qualcuno che non era del luogo, ed era così interessante vedere la mia città natale narrata da una nuova prospettiva. Ho avuto improvvisamente la voglia di condividerli e far si che il pubblico potesse vivere questi documentari.
Quindi è un fattore personale?
Si è trattato di vari fattori, innanzitutto il desiderio di far sì che le persone avessero accesso ad alcuni documentari, e in più ci hanno messo lo zampino i miei amici che hanno iniziato a fare i documentari: con loro ho iniziato a lavorare come produttore anche al di fuori del Messico. Volevo sostenerli, quindi decidemmo anziché distribuirli e sostenerli singolarmente avremmo potuto prenderli tutti e andare in tour, come se fossimo una rock band. In quel periodo anche Elena (Fuertes, ndr) aveva questa idea nei confronti del cinema documentario, così abbiamo deciso di trovare un modo per spiegare cosa fosse questo tipo di cinema, definirlo, in modo gratuito e nei luoghi pubblici. Volevamo raggiungere anche l'industria, si trattava di un progetto molto ambizioso all'inizio, volevamo tutto, eravamo così giovani.
Cosa avete imparato da questa esperienza?
Abbiamo imparato moltissime cose, ad esempio far funzionare un gruppo: la gestione di un gruppo di persone non è semplice, bisogna rapportarsi costantemente alle realtà soprattutto politiche del nostro paese. Il Messico è un paese in cui è stato possibile fare tutto questo solo per miracolo, perché è comunque un paese profondamente diversificato in cui ogni zona ha una diversa amministrazione, e scontrarci con la politica a volte non è affatto facile. Ma abbiamo avuto successo, perché dopo dodici anni abbiamo tantissimi visitatori e spettatori da tutto il mondo e la reazione del pubblico è incredibile, vedere questa prossimità tra realtà diverse è magnifico. Per me Ambulante è davvero meraviglioso.
Il cinema secondo te può ancora avere una funzione politica?
Assolutamente si, il cinema ha una funzione trasversale tra cui una revisione storica, di memoria, e creazione del futuro. Prima stavo parlando del tema dell'immigrazione, e il cinema di per sé contiene degli elementi propri della migrazione, perché abbatte le frontiere e ha un impatto sulle persone che riescono a dialogare e ad avere una discussione. Nel bene e nel male il cinema influisce, ma non mi piace l'idea di chiuderlo in funzione politica. Non bisogna mai anteporre un'etichetta, meglio entrare in sala e vedere un film senza sapere se sarà "politico" o meno; quando guardiamo un film vogliamo avere una visione innocente, non preparata nei confronti di un'etichetta preposta.
Come riesci a coniugare questa esperienza di Ambulante con la tua carriera di attore, con film biografici o con esperienze come Mozart in the Jungle?
Devo dire che partecipo in modo diverso nei diversi generi: ad esempio per quanto riguarda il teatro mi piace molto più farlo che vederlo, fare teatro è divertentissimo, incredibile, si apprendono tantissime cose. Assistere a delle opere teatrali invece non mi piace cosi tanto, anche se vengo da una famiglia teatrale. Al contrario invece mi piace molto più vedere un film che farlo, perché farlo e un'opera lunga, una proceduta confusa, e poi bisogna parlare bene del film prima di vederlo ancora fatto, bisogna sapersi vendere: preferisco quindi il ruolo di selezionatore e vederli piuttosto che farli, dato che il documentario è anche il mio genere preferito. Ma anche come attore mi diverto, ultimamente sto facendo Mozart in the jungle e mi sto divertendo tantissimo a farla, è come se fossi in una compagnia teatrale.
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Senti che a causa delle tue idee chiare tu abbia perso alcuni ruoli?
La giornata è fatta di sole ventiquattro ore, non posso fare tutto. Faccio solo quello che per me è indispensabile: Neruda ad esempio è una pellicola su cui ho avuto una decisione chiara e ovvia, immediata, perché è un film che ha a che fare con me e con le persone con cui ho lavorato. Se mi offrissero di fare un grande film negli Stati Uniti contemporaneamente ad uno come Neruda, per me rinunciare a Neruda sarebbe una perdita di tempo. Esiste ancora il mito di Hollywood ma il cinema è cambiato, i film si fanno ovunque, e non rimpiango di non essere entrato in quel meccanismo. A Hollywood preferisco Neruda perché è un film che parla di me, mi permette di volare e raggiungere l'obiettivo per cui faccio cinema, ovvero essere libero e avere molte personalità dentro di me.