Fino alle montagne, la recensione: un ritorno alla natura per una fiaba intrisa di realismo

Sophie Deraspe prende spunto dal romanzo semi autobiografico di Mathyas Lefebure per portarci nel cuore delle Alpi francesi. Un'epopea emotiva dove l'idealismo iniziale del protagonista aspirante pastore lascia spazio alla concretezza del mestiere.

Félix-Antoine Duval e Solène Rigot in una scena del film

"Un invasato che torna alla natura". Viene apostrofato così Mathyas (Félix-Antoine Duval), giovane pubblicitario di Montréal che decide di lasciarsi tutto alle spalle per diventare pastore sulle vette dell'alta Provenza. È il protagonista di Fino alle montagne, ultimo film in ordine di tempo diretto da Sophie Deraspe e ispirato al romanzo semi autobiografico di Mathyas Lefebure - anche co-sceneggiatore - intitolato D'où viens-tu, berger? in cui raccontava della sua crisi esistenziale e della decisione di abbandonare la carriera per vivere a contatto con la natura.

Raggiungere l'essenziale

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Félix-Antoine Duval e Solène Rigot in una scena del film

Una scelta più che mai attuale, come ci racconta la cronaca. Specie quella recentissima legata al post Covid che ha dato il coraggio a molte persone di lasciare le proprie scrivanie e vivere una vita meno legata a obiettivi, orari, call o aspettative sociali e più simile a ciò che veramente desidera. "Non tornerò" scrive sicuro in una mail Mathyas in cui si congeda dal sé del passato per abbracciare un futuro idealizzato in cui si sogna scrittore e pastore. Ma tra i desideri e la realtà c'è un abisso fatto di concretezza.

Mathyas non sa nulla di cosa significhi veramente essere un pastore. Acquista un coltello, un capello e dei libri per avvicinarsi alla figura che di sé ha in mente. Ma è l'azione pratica quella che gli manca. I suoi primi passi tra pascoli e stalle li muove incerti, scontrandosi con la crudezza di un mestiere che assorbe tutto il proprio tempo. Esperienze dure e deludenti che lo gettano nello sconforto. Ma grazie a Elise (Solène Rigot), una funzionaria comunale che lascia il suo lavoro per seguirlo nel suo progetto di vita - i due si ritrovano alla guida di 800 pecore da condurre in transumanza verso le Alpi.

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Un'immagine di Fino alle montagne

Presentato lo scorso anno al Toronto International Film Festival e premiato come miglior film canadese al 73° Trento Film Festival 2025, Fino alle montagne si inserisce in un filone cinematografico che negli ultimi anni ha posto molto l'accento sulla vita rurale. Forse il più esemplare è Petit Paysan di Hubert Charuel. Un vero e proprio caso in Francia, vincitore di tre César, dove il regista metteva in scena una storia dal contorni autobiografici. Un giovane allevatore, Pierre (Swann Arlaud), si batteva per salvare la mandria di mucche da un'epidemia diffusa in tutta la Francia.

Il film di Deraspe inserisce più di un riferimento allo stato dell'agricoltura, tra proteste dei pastori e scelte burocratiche che limitano la loro libertà, ma il suo centro narrativo è decisamente votato al viaggio interiore dei due protagonisti. Guarda meno all'estero e più all'interno per mostrarci una "spoliazione" dai beni superflui per raggiungere l'essenziale.

Un'epopea emotiva

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Félix-Antoine Duval in una scena del film

Lungo quasi due ore e dal ritmo che ripercorre quello della natura, Fino alle montagne non si esime dal raccontarne anche l'asprezza. Il paesaggio che abbraccia Mathyas ed Elise non è una scenografia dalla bellezza vertiginosa. È una creatura viva che può essere violenta così come dolcissima. I due protagonisti imparano a conoscerla, a fare i conti con la brutalità del ciclo della vita, a trovarsi faccia a faccia con scelte complesse. Ma la ricompensa è un nuovo modo di respirare, di approcciarsi all'esistenza. Al punto da avere la nausea al solo pensiero di tornare a chi si era prima.

Accompagnato dalla musica fiabesca di Philippe Brault, il film si può definire esso stesso una fiaba. Ma non una di quelle edulcorate per un pubblico di giovanissimi. Dentro Fino alle montagne non manca il retrogusto amaro. L'idealizzazione iniziale di Mathyas lascia il posto al realismo. I lupi che assecondano la loro natura, i piedi pieni vesciche, i temporali impetuosi, gli agnellini abbandonati subito dopo il parto.

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Una scena del film

È un'epopea emotiva che Deraspe mette in scena con un taglio vagamente documentaristico. Ricco di campi lunghi che enfatizzano la maestosità delle montagne e dei paesaggi, il film gode di una fotografia pastosa firmata da Vincent Gonneville dove il controluce è un elemento usato a più riprese in cui Mathyas ed Elise si stagliano. Come a sottolineare la loro presenza in quei luoghi ancora quasi del tutto inviolati (non manca una frecciatina al turismo).

C'è chi potrebbe storcere il naso per la durata eccessiva o per una trama all'apparenza esile. Tutte tesi valide. Ma dietro la pellicola c'è la precisa volontà di raccontare una storia "semplice". Quella di due esseri umani che si ritrovano come individui abbandonando una vita che gli sta stretta. Un percorso in salita, doloroso, ricco di ostacoli e fatica. Come arrivare sulla cima di una montagna. Ma una volta arrivati lì, la vista è impareggiabile.

Conclusioni

In Fino alle montagne di Sophie Deraspe, il giovane pubblicitario Mathyas abbandona la sua carriera a Montréal per dedicarsi alla pastorizia in Provenza, spinto da un desiderio di ritorno alla natura. L'iniziale idealizzazione di una vita semplice si scontra però con la dura realtà di un mestiere che richiede grande fatica e dedizione. Affiancato da Elise, Mathyas intraprende un'impegnativa transumanza, confrontandosi con le difficoltà e le asprezze del paesaggio montano. La pellicola non nasconde le difficoltà, ma si concentra sul viaggio interiore dei protagonisti, mostrando una "spoliazione" dai beni superflui per raggiungere l'essenza della propria esistenza. È un'epopea emotiva che, pur con un ritmo cadenzato e un tono realistico, celebra la riscoperta di sé e un nuovo approccio alla vita, malgrado gli ostacoli del percorso.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
5.0/5

Perché ci piace

  • Il racconto di una “spoliazione” dal superfluo
  • La rappresentazione di una natura dalle tante sfaccettature
  • La fotografia di Vincent Gonneville
  • L'atmosfera da fiaba che non dimentica l'amaro e il realismo

Cosa non va

  • La lunghezza e la trama esile potrebbero non convincere una fetta di spettatori