"Questo è il mio tredicesimo film, escludendo i 18 episodi di A casa tutti bene - La serie. Ne ho viste tante e sento che la mia vita professionale è stata particolarmente ricca. Nonostante questo in ogni film che fai ritorni al punto di partenza e hai la stessa ansia da prestazione e paura. Penso di aver fatto un buon film come penso a volte di aver fatto film meno buoni. Sono sereno sul fatto che sia un buono e lo dico senza presunzione, perché l'avrò visto 250 volte e quando le cose non funzionano diventano enormemente orribili".
Così Gabriele Muccino ha raccontato Fino alla fine, un titolo importante perché segna diverse novità nella filmografia di un autore che, evidentemente, non hai mai smesso di mettersi in gioco in ogni suo lavoro, incapace di frenare un coinvolgimento sempre epidermico con qualsiasi storia messa in scena, "i film mi hanno salvato la vita", spiega. Un elemento che si avverte forte e chiaro anche questa volta, e forse anche più.
"Fare un film è un'esperienza sempre molto masochistica - dice Muccino, tra il serioso e lo scherzoso - perché ti mette nella condizione di dover essere giudicato, ogni volta mi chiedo perché sottomettermi ad una cosa del genere, quando è ciò che da adolescente temevo di più. Forse perché balbettavo e quindi ho pensato che potessi esprimermi attraverso i corpi degli altri, ma la paura del giudizio c'è sempre".
Fino alla fine: una rottura dei soliti schemi "mucciniani"
Fino alla fine sposta per la prima volta l'equilibrio della sua "geografia dei sentimenti", accedendo ad un genere che permette ad essere di muoversi in modo più dinamico e action. Nonostante i rischi."Quasi tutti i miei film raccontano il mio modo di stare al mondo in quel momento al punto che posso dire che io sono i film che faccio. Fino alla fine rappresenta la mia voglia di rompere uno schema, fare qualcosa che non ho ancora fatto, scavalcare il muro di quella safe zone dove ho fatto tutti i miei film".
Al netto di un salto importante, c'è comunque un fil rouge molto forte che lega una pellicola come questa a quelle precedenti, come ammette Muccino stesso: "Non ho cambiato il genere: il thriller c'era anche ne L'ultimo bacio e A casa tutti bene - La serie, ma ho cambiato la declinazione del linguaggio, ho spostato i personaggi ad andare oltre quella zona di comfort o del buonsenso, un muro, che avevo evidentemente dentro di me. Avevo paura di sbagliare e di non saper fare questo salto, ma quando la serie mi ci ha portato ho capito che mi sento molto a mio agio".
Un salto che si rivelato logico non solo per la qualità registiche di Muccino, che è a suo agio anche nel raccontare le scene d'azione, ma anche per la visione che ha il regista del percorso evolutivo dell'umanità in senso più ampio. Infatti, come dice lui stesso: "l'animo umano è stato costruito per millenni sulle atrocità e sulla necessità di proteggersi e prevaricare. L'uomo ha per natura molto presente dentro di sé questo lato oscuro: fight or flight".
L'importanza delle circostanze
La cornice filmica per Gabriele è importantissima, perché permette ai suoi personaggi, sempre passionali e sempre in movimento, di correre in un senso o nell'altro. Una cornice che plasma le loro scelte e orienta i loro animi, "siamo tutti cacciatori o guerrieri, sono le circostanze che ci trasformano in una cosa o nell'altra". Questo perché gli eventi dei film del regista romano portano con loro il soffio del vento delle emozioni, costringendo i personaggi a reagire e, di conseguenza, a scegliere.
Una commistione tra quello che ci accade e come noi decidiamo di porci di fronte alle eventualità, questa è la ricetta di Fino alla fine. Come spiega il regista romano: "Nel film ci sono delle circostanze che trasformano i personaggi in dei poco di buono perché un poco di buono sopra di loro che li costringe a fare una cosa che fa girare il film a 360 gradi, compiendo un twist pazzesco. Un deus ex machina che ribalta completamente il tavolo da gioco cambia, facendo entrare in scena le scelte che fa la protagonista".
La protagonista, interpretata da Elena Kampouris, è la bussola impazzita della pellicola. Il simbolo di come ci sia una certa spinta dentro ognuno di noi, una spinta che spesso ci porta verso il caos piuttosto che verso l'ordine. Una cosa in cui crede molto anche Muccino: "Sophie può scegliere molte volte di tirarsi indietro e invece continua a rilanciare in un impeto autodistruttivo pur di vivere fino in fondo. Ecco ancora quel qualcosa di oscuro che si frappone e collega eros e thanatos allo stesso tempo: attrazione verso l'oscuro, l'ignoto e il fatalistico".
La prima donna protagonista di Muccino
Non solo la declinazione del linguaggio di un genere, Fino alla fine vanta un'altra grande novità nella carriera di Gabriele Muccino e riguarda proprio l'avere per la prima volta una protagonista femminile. "Trovo le donne molto più interessanti e penso che pochi film riescano a raccontare le donne bene sul serio. Incontrare una donna permetteva a me di conoscermi in un altro modo. Una donna borderline, forte, leader e complicata. Un femminile attraente dal mio punto di vista".
Fino alla fine e "La famiglia putativa" secondo Saul Nanni, Lorenzo Richelmy, Elena Kampouris
A volte sono le circostanze (guarda caso) a portare fare scelte del genere, anche se si covano dentro da tempo. "Era parecchio che volevo fare un film su una donna - spiega il regista - perché è una creatura estremamente misteriosa per uomo. Non faremo mai abbastanza per comprendere una donna e aver avuto una figlia ha spalancato la mia mente su questo tipo di percezione. Forse è stata questa limpidezza sullo sguardo delle donne rispetto a quello degli uomini mi ha fatto venie voglia di raccontarle".
Un'altra delle difficoltà che accompagnava questa scelta riguardava anche la lingua della protagonista, l'unica anglofona del cast. Un altro ostacolo trasformato in opportunità, come spiega Muccino: "Elena non parlava una parola di italiano quando l'ho conosciuta e infatti Fino alla fine doveva essere girato interamente in inglese. Quando però lei ha cominciato a venire in Italia ho notato come parlasse cinese fluentemente e come parlasse anche indi per un film Netflix. Allora, ad un mese e mezzo alla riprese, le ho proposto di imparare l'italiano. Ho girato in due versioni per ogni take. Nessuno mi sarebbe venuto dietro, ma io sapevo che si poteva fare perché non mi copro, economizzo molto a livello di inquadrature. I due film sono clonati praticamente, faccio fatica io a vedere le differenze. Così ho conservato l'incontro culturale, fatto di dissonanze, che volevo. Nessuno ha mai fatto nulla del genere".
Le scelte del futuro
La pellicola inizia con una frase piuttosto categorica: "La vita è il risultato delle scelte che facciamo". Eppure la sua veridicità si poggia su una visione quanto meno superficiale del percorso di esistenza di un individuo, perché sottovaluta gli eventi, che sono invece (come detto anche sopra) degli elementi fondamentali nella visione di Muccino.
"'La vita è il risultato delle scelte che facciamo' è una frase innegabilmente vera perché ogni volta che facciamo un scelta non sapremo mai come sarebbe andata se non l'avessimo fatta, ma la realtà dei fatti non è così semplice. Mi viene sempre in mente l'immagine dello scambio dei binari: quando sei sul treno non te ne accorgi, ma questo cambio ti porterà in una direzioni diversa. E il nostro subconscio che compie l'80% delle scelte che facciamo, quindi nella vita, nonostante quello che pensiamo, ci muoviamo solo con l'illusione del controllo".
A proposito di scelte più o meno consapevoli che regolano la nostra vita, dopo Fino alla fine, Gabriele Muccino continuerà ad esplorare questa non comfort zone legata a questa nuova declinazione del thriller? La risposta è "Continuerò su questo filone. Pensate che ho scritto già un altro film e ne sto scrivendo un altro ancora. Lavorare con i sentimenti e portarli fino alle loro disfunzioni più estreme è una prospettiva che mi piace".