Di ritorno a Berlino dopo Vergine giurata, la regista Laura Bispuri ha presentato il suo nuovo lavoro, Figlia mia, al festival tedesco proprio qualche giorno prima dell'uscita nelle sale italiane del 22 febbraio. Si tratta di un film che racconta il difficile rapporto tra due donne che si contendono l'affetto di una bambina: da una parte c'è l'Angelica di Alba Rohrwacher, dalla vita caotica e instabile, dall'altra la materna sicurezza della Tina di Valeria Golino che quella bambina ha accolto e cresciuto in modo amorevole. Nel mezzo c'è la piccola Vittoria interpretata da Sara Casu, il cui ruolo nella storia è importante e significativo per completare il percorso delle due madri imperfette che la circondano.
La presenza a Berlino della regista romana è stata l'occasione per noi per confrontarci con lei su temi e tecniche del suo film, prima in una lunga e densa conferenza stampa, poi in un faccia a faccia che ci ha permesso di approfondire ulteriormente Figlia mia ed i suoi significati. Curiosità alle quali Laura Bispuri ha risposto con gentilezza ed entusiasmo nei confronti del proprio lavoro, soffermandosi sul suo metodo di lavoro che le permette di ottenere sequenze molto spontanee e naturali a dispetto della grande pianificazione che richiedono.
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Due mamme e una figlia
Nella nostra cultura, la mamma è la figura più importante del nostro sviluppo. Qui non c'è questa sensazione. Qual è stata l'ispirazione per questa storia?
L'origine risale a tanto tempo fa, prima di Vergine giurata, ed ha a che fare col racconto di una ventenne che era vicina a me e che mi diceva di avere il desiderio di essere adottata da un'altra madre. E quindi con la sceneggiatrice con cui collaboro da tempo abbiamo iniziato ad indagare in tal senso e una volta finita Vergine giurata siamo tornati a questa storia, che ha qualcosa di ancestrale e pone delle domande universali. Abbiamo provato a indagare la maternità in modo contemporaneo, cercando di decostruire l'immagine della madre perfetta, cercando delle madri imperfette.
Verso la fine del film c'è una sequenza in cui Vittoria entra nel buco per poi uscirne nuovamente. Ha una significato simbolico? Rappresenta una metafora della rinascita?
Quella scena è all'interno di un momento del film che chiamavo la diaspora, in cui volevo che tutti i personaggi andassero in una parte nera, andassero giù. Lei lo fa letteralmente, va in questo buco e ne riesce. Ed è una rinascita. L'immagine finale di Vittoria, infatti, è un'immagine forte, è un augurio che faccio alle bambine. Vittoria è un'eroina che affronta la sua vita.
L'ultima parola che dice la bambina, "andiamo", e il tono con cui è pronunciato suggerisce che la bambina prenda le redini della situazione?
In qualche modo nel finale diventa lei la mamma di queste due donne. Nella scena iniziale vediamo la bambina in mezzo tra le due, mentre alla fine è davanti e le conduce, perché si è resa conto che ama entrambe ed appartiene ad entrambe.
L'unione finale, che arriva dopo una frattura, era qualcosa di scritto? Come hai lavorato sull'evoluzione dei due personaggi?
Nel film raccontiamo una parabola, quindi era tutto scritto e pensato dall'inizio. Volevo raccontare come due personaggi apparentemente distanti, opposti quasi, fanno un percorso incrociato. Nella seconda parte del film ci sono dei segnali che ci mostrano come Angelica vada verso Tina e come quest'ultima invece vada verso l'altra. È un percorso incrociato che porta a questa accettazione dell'altra, della complessità di questa storia e della bambina, di loro come esseri umani. Il film è un viaggio dentro il cordone che lega questi tre personaggi, creando una sfida tra queste due madri che dall'opposizione iniziale arrivano ad una comunione finale. Guidate dalla bambina.
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Dietro le quinte di Figlia mia
La soap che si vede nel film può essere una replica della storia che stai raccontando?
Questa è una chicca che mi fa piacere sia notata. Per me era assolutamente così. In scrittura era più ampia e durante le riprese si è un po' ridimensionata, ma nasce da questa idea che pensavo si fosse persa.
Ci è sembrato di cogliere dei riferimenti al western al femminile, è qualcosa di voluto?
Mi fa sorridere questa cosa. Mi piace, mi gratifica e mi diverte. È qualcosa che ho iniziato a dire anche prima delle riprese, ma non mi sono seduta a un tavolino dicendomi "adesso facciamo un western", altrimenti con molta probabilità l'avrei fatto più di genere, con più riferimenti. Però questo sapore western mi piace molto, questa sfida al femminile senza pistole, con questi cavalli, questa polvere, questa atmosfera.
Il movimento della macchina da presa simboleggia la condizione delle due donne?
Uso molto la camera a mano, mi piace perché sento un contatto con i personaggi e mi dà libertà. Nei piani sequenza non amo che si noti quanto è bello. Ce l'ho in testa, ma nel momento in cui realizzo voglio sporcarlo.
In che modo cerchi di sporcare questa perfezione. Ci racconti come lavori e ottieni il risultato che cerchi?
È la mia chiave di lettura. Cerco di vivere il luogo in cui andrò a girare in prima persona, tantissimo. Seguo la scenografia, il luogo, gli spazi. Ne faccio la piantina, sono questi che determinano la scelta del luogo. Faccio una ricerca enorme per arrivare a trovare una casa e lo vivo tantissimo prima della lavorazione. In base a questo spazio, costruisco dentro di me delle traiettorie, decido ogni scena da dove comincia, dove passa e dove termina. Nel film c'è un continuo entrare e uscire, passaggi dall'interno all'esterno che sono un'altra cosa che mi piace molto, non facile dal punto di vista fotografico. Poi arrivano gli attori, in questo caso le attrici, e inizio a raccontare loro come vedo la scena, da dove partire, dove passare, dove arrivare. E iniziamo a provarlo tante volte. Io giro tutto in piano sequenza e da un punto di vista solo ed è qualcosa che nessuno crede prima di lavorare con me. È una specie di balletto, all'interno del quale, però, cerco di non ripetere esattamente gli stessi movimenti. Per esempio chiedo agli attori di fermarsi esattamente in un punto, è qualcosa di più morbido, lascio la possibilità di movimenti imprevisti che seguo. In definitiva creo un tracciato ben preciso, ma con delle morbidezze.