Negli anni Cinquanta la Ferrari si impose come il marchio per eccellenza nell'ambito delle corse automobilistiche, guidata dalla visione del suo patriarca Enzo Ferrari, il cui sogno di velocità trionfale comportava una dedizione maniacale al lavoro non sempre condivisa dai piloti. Come scopriremo in questa recensione di Ferrari: un mito immortale, affidandosi a materiale d'archivio e interviste inedite, il regista Daryl Goodrich ricostruisce un'epoca gloriosa e al contempo tragica, focalizzandosi sul rapporto professionale e umano tra Ferrari e due delle stelle della Scuderia, Peter Collins e Mike Hawthorn.
"Volevo essere un grande pilota, e non lo sono stato"
Leggendo un titolo come Ferrari: un mito immortale (in originale Ferrari: Race to Immortality) viene abbastanza spontaneo pensare che il lavoro fatto dal documentarista Daryl Goodrich si concentri sulla figura imponente al centro del brand sportivo, quella del fondatore Enzo Ferrari: il Commendatore, l'Ingegnere, il Grande Vecchio. In alternativa si potrebbe trattare di un ritratto esaustivo della Scuderia Ferrari, il marchio che nel corso degli anni si è imposto come il più grande nella storia delle corse automobilistiche, fino a diventare praticamente il simbolo stesso della Formula 1, grazie anche a piloti come Niki Lauda (la cui attività al servizio della società modenese è stata raccontata al cinema in Rush) e Michael Schumacher. È invece un approccio più malinconico quello scelto dal regista: Race to Immortality affronta apertamente la controversa gestione della Ferrari da parte di Enzo negli anni in cui la Scuderia era rappresentata in pista da Luigi Musso e Peter Collins (entrambi morti nel 1958, rispettivamente durante le corse in Francia e Germania), nonché da Mike Hawthorn che, dopo essere stato incoronato campione del mondo pochi mesi dopo la scomparsa dell'amico Collins, si ritirò dal mondo della Formula 1 e morì nel 1959 in un incidente d'auto.
Goodrich ricostruisce la storia affidandosi quasi esclusivamente a materiale d'archivio, anche per l'audio legato ai protagonisti non più in vita (nel caso di Enzo Ferrari le testimonianze sono tratte da una conversazione con Enzo Biagi), mentre per le interviste contemporanee - al biografo di Ferrari, a specialisti di Formula 1, a piloti in pensione e alle compagne di Collins e Hawthorn - non c'è alcun accompagnamento visivo: le loro voci commentano le immagini d'epoca, dando all'operazione un respiro vintage ma per nulla nostalgico. Al rispetto per Ferrari sul piano professionale si aggiunge una critica a livello umano, mettendo in evidenza i lati oscuri di una vita all'insegna del successo a tutti i costi, talvolta con conseguenze poco piacevoli (come viene più volte ricordato, il Commendatore sosteneva che i suoi piloti dovessero dedicarsi interamente alla Ferrari e sacrificare tutto il resto, un dettaglio che rende ancora più tragiche le circostanze in cui persero la vita Musso e Collins). Ed è proprio questa volontà di allontanarsi dall'agiografia, unita al lavoro di ricerca e montaggio delle immagini, a dare a Ferrari: un mito immortale un sapore cinematografico per lo più speciale, lontano dalle convenzioni che avrebbero potuto caratterizzare un lavoro più tradizionale.
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Epico ma non troppo
Se proprio bisogna andare a scovare un difetto maggiore nell'operazione condotta da Goodrich, che cede brevemente (ma forse anche inevitabilmente) alle tentazioni più schematiche mostrando alla fine i volti delle persone intervistate, esso riguarda soprattutto la durata del film che, come le migliori gare di Formula 1, procede a un ritmo spedito, durando appena 89 minuti. Da un lato, questo elimina ogni rischio di possibili tempi morti e/o digressioni che potrebbero appesantire il lavoro di ricerca fatto dal cineasta, ma dall'altro dà un'impressione, anche solo parziale, di ritratto incompleto, con la possibilità di esplorare nel dettaglio soprattutto quanto accaduto dopo gli eventi del biennio '58/'59, tra cui l'abbandono della struttura originale del Nürburgring (che rimase utilizzato dai piloti fino all'incidente di Lauda nel 1976). Ciò avrebbe potuto arricchire il respiro epico di un documentario comunque ammirevole, consigliato anche a chi non si interessa alle corse automobilistiche.
Conclusioni
Chiudiamo questa recensione di Ferrari: un mito immortale, documentario che sorprende in positivo per la sua volontà di non cedere alla tentazione dell'agiografia, mostrando come l'immortalità del brand sia effettivamente costata la vita ad alcuni dei piloti che contribuirono all'immagine della scuderia.
Perché ci piace
- L'uso del materiale d'archivio è molto affascinante.
- L'approccio critico nei confronti della Ferrari è ammirevole.
- Le testimonianze sono appassionanti e ricche di spunti.
Cosa non va
- Sarebbe stato auspicabile qualche dettaglio in più sugli eventi dopo il 1958.