Un maestro che ne racconta un altro: è un evento un po' strano, questo, effettivamente insolito (come ha voluto ricordare, realisticamente, Sergio Rubini) specie in Italia, attuale paese dei fratricidi (ben poco shakespeariani) e delle invidie malcelate. Che il maestro narratore si chiami Ettore Scola, e quello narrato Federico Fellini, esponenti di una stagione diversa e irripetibile del nostro cinema, non è certamente un caso. Questo Che strano chiamarsi Federico!, opera pensata e realizzata per celebrare il ventennale della scomparsa del grande regista, a dispetto dello stupore del suo autore, ha emozionato e commosso chi vi ha assistito: quegli spettatori che hanno conosciuto e amato tanto i due registi, quanto la scena cinematografica (di cui ormai non restano che le ceneri) che insieme a tanti altri autori seppero costruire.
La conferenza stampa di presentazione del film (fuori concorso al Lido) che ha prevedibilmente avuto come mattatore l'anziano, ma ancora arguto e lucidissimo regista, ha visto anche la presenza della figlia Silvia Scola, così come quella dello stesso Rubini e dell'altro interprete Tommaso Lazotti, che nelle parti ricostruite veste i panni del giovane Fellini.
Ettore Scola: La prima idea era fare un omaggio a Fellini nel ventennale della sua morte: inizialmente però doveva essere una semplice raccolta di repertorio. Quando poi ho parlato con Roberto Cicutto, lui ha proposto di farne un vero e proprio film, visto che io avevo conosciuto personalmente Federico. Non so di preciso cosa sia il film: probabilmente un album pieno di fotografie, brani scritti, ricordi. Come tutti i ricordi, qualcuno è offuscato e quindi andava un po' ricostruito, articolato insieme agli altri: di questo si sono occupate Silvia e l'altra mia figlia, Paola Scola. Non si vede, ma io oggi sono distrutto dalle domande, spesso simili tra loro, che mi hanno rivolto tutti quei giornalisti, provenienti da tutti i paesi. Tutti dicono di aver pianto tanto, con questo film, ma far piangere non era nei nostri intenti. Voglio dire, non c'è niente da piangere: si piange per chi se ne va senza lasciare traccia. Piangere per Federico è come piangere per la morte di Leopardi. Quando si piange significa che c'è stata un'intenzione lacrimosa, un preciso intento di far piangere: questo intento, noi non l'abbiamo avuto. Se a Federico avessero detto che per questo film qualcuno aveva pianto tanto, credo che si sarebbe davvero incazzato. A volte veniva lui definito qualunquista o maschilista, ma era uno che al contrario aveva una grande tenerezza, specie verso le donne. E' importante che il film sia visto dai giovani, perché Fellini, nel suo cinema, ha parlato anche e soprattutto di loro.
Cosa può dirci della collaborazione con Rubini?
Quando vidi il film La stazione, vidi Rubini e, già da allora, pensai che volevo proprio fare un film con lui. Non c'ero mai riuscito, e proprio in questo film, che in realtà, come dicevo, è un 'album', un insieme di ritagli, ne ho avuto infine l'occasione.
Silvia Scola: Questo è stato un film da una parte facile da scrivere, proprio perché mio padre ha conosciuto personalmente Federico. Dall'altra, però, avevamo l'handicap della scadenza del ventennale che dovevamo rispettare: una scadenza che era come un cappio. Dovevamo raccontare una grande amicizia anche dal punto di vista emotivo: selezionare non era facile. Abbiamo alla fine deciso per una commistione tra eventi ricostruiti e immagini di repertorio, che mostravano Federico vivo: vivo come il suo cinema, e come la sua memoria. Il soggetto l'hanno scritto Ettore con i suoi due nipoti, che hanno scardinato le sue prime resistenze verso l'emersione dei ricordi. Quando ci siamo messi a scrivere c'era già a monte un lavoro di selezione, e abbiamo continuato a scrivere anche durante le riprese, nonché durante il montaggio e il missaggio.
Una volta il cinema italiano era un ambiente in cui tutti gli intellettuali si ritrovavano e comunicavano: questo succedeva in riviste come il Marc'Aurelio, a cui entrambi collaboravate. Oggi questo aspetto si è un po' perso... Ettore Scola: La nostalgia e i rimpianti non sono il mio forte. E' vero, si sono perse tante cose, ma pensiamo anche a cosa si è guadagnato. Non sono passati cinquant'anni da quando eravamo al Marc'Aurelio, ma forse cinque o sei secoli. Si sarà pure perso il contatto diretto e la collaborazione, ma pensiamo alle opportunità che oggi hanno i giovani: noi ce le sognavamo. L'unico divertimento era un giornale umoristico, uno dei tanti che svolgevano quella funzione: era una vocina nel mare delle voci di regime, o un venticello di fronda.
Rubini, può svelarci un ricordo personale di Fellini? Sergio Rubini: Di ricordi ne ho tanti. Una cosa che imparai subito è che Federico era solito chiamarti al mattino molto presto: io, prima di incontrarlo, alle 6.30-7 del mattino dormivo, ma dopo un po' ho iniziato a mettere la sveglia prima. Facevo persino degli esercizi vocali per mascherare la voce impastata dal sonno! Insomma, ho imparato anche a svegliarmi presto, grazie a lui: questa è stata una cosa da maestro vero. Posso dire una cosa che ora farà arrabbiare Ettore e Silvia? A me, per questo film, viene da piangere tantissimo. E' emozionante che un grande maestro faccia un film su un collega: è inusuale nel nostro paese, dove il fratricidio è la pratica più usata.