Estetica e filosofia del martirio
Nel panorama, un po' desolante e standardizzato, della proposta di questa terza edizione del Festival del Film di Roma, uno dei pochi, veri sussulti (probabilmente il più violento) lo ha offerto questo Martyrs. Horror al contempo teorico e di una fisicità devastante, esempio di film di genere che supera e travalica il genere stesso, il secondo film del francese Pascal Laugier (già autore della ghost story Saint Ange) spazza via in un sol colpo cloni e remake di Non aprite quella porta, i vari Hostel e Saw e anche la violenza, che ora appare quasi convenzionale e inoffensiva, del conterraneo Alexandre Aja col suo Alta tensione. Con Martyrs siamo infatti di fronte a un'opera che segna indelebilmente una pagina nella storia del genere, a parere di chi scrive di una portata storica paragonabile (e forse superiore) a quella che ebbe un altro film "maledetto" come Henry - Pioggia di sangue di John McNaughton. Laddove gli esempi sopra citati cercavano infatti, con alterni risultati, di recuperare un'estetica della paura e della violenza propria di un cinema d'altri tempi (gli anni '70) traslandola senza troppi problemi in un contesto contemporaneo, qui siamo di fronte a un'operazione diversa, dalla portata, per la prima volta dopo anni, politica oltre che estetica. Ed è forse proprio questo il motivo per cui questo film risulta così insostenibile alla visione per i più, così difficile da assimilare e da accettare. Non è un gioco, quello che vediamo sullo schermo, non c'è catarsi alla fine della visione, perché le aberrazioni mostrate sono troppo intimamente legate alla natura umana, e ai germi dell'orrore insiti nel mondo contemporaneo.
Inizia come il più classico degli horror, Martyrs, aggredendo da subito lo spettatore con un breve flashback seguito da immagini di repertorio ricostruite, esplicitando fin dall'inizio l'atmosfera di sporcizia e disagio che accompagnerà lo spettatore per tutta la durata della pellicola. Horror e revenge movie sono abilmente mescolati nella prima parte del film, con l'implacabile vendetta della protagonista alternata alle apparizioni di una creatura che sembra uscita da un videogioco della serie Silent Hill, un mostro dell'inconscio che garantisce, in questa fase, un aggancio con le convenzioni del genere. Il risultato è comunque duro, senza fronzoli e registicamente efficace, estremamente diretto nella violenza brutale della messa in scena: ma è solo un'introduzione, un preambolo a quello che sarà il vero fulcro del film, nella seconda parte. E' in questa fase, in cui lo script opera una perfetta traslazione del punto di vista (e dell'oggetto dell'orrore) che il film mostra il suo vero volto, e viene fuori in tutta la sua devastante portata teorica: la discesa nell'inferno di torture e supplizi che tante volte abbiamo visto al cinema, ma che raramente ci hanno fatto lo stesso, insostenibile effetto, è resa con una tale forza espressiva, con una tale mancanza di compromessi e mediazioni propriamente cinematografiche, da colpire con una durezza che ha pochi termini di paragone in altre opere dello stesso genere. E a disturbare ancora di più, oltre alla grande lucidità della rappresentazione, è probabilmente la sostanziale resa all'orrore da parte della vittima, l'accettazione di una filosofia di morte e sofferenza che ci sembra davvero troppo vicina alla nostra contemporaneità. In un'epoca di integralismi, di massacri in nome di visioni contrapposte del mondo, della vita e della morte, cosa può disturbare di più della ricerca della rivelazione attraverso la sofferenza? Cosa può esserci di peggio di una sistemazione ideologica della filosofia del martirio? Lo spettatore, indifeso, non può che ripetersi vanamente che si tratta solo di un film. Ma, disgraziatamente, dentro lo schermo c'è molto, troppo, di noi e del nostro mondo. Malato, al contempo martire e carnefice di se stesso.
Movieplayer.it
4.0/5