Enrico Pitzianti porta la vera Sardegna al cinema con Tutto Torna

Il regista cagliaritano racconta il suo film, racconto di formazione su un giovane sardo che da un paesino sperduto del nord dell'isola si trasferisce a Cagliari nella speranza di esaudire il suo sogno: diventare uno scrittore.

"In questo periodo cominciano finalmente ad esserci film ambientati in Sardegna che non parlano solo di cultura agro-pastorale, ma di una Sardegna più attuale." Così Enrico Pitzianti presenta il suo primo lungometraggio di finzione, Tutto torna, racconto di formazione di un giovane sardo che da un paesino sperduto del nord dell'isola si trasferisce a Cagliari nella speranza di esaudire il suo sogno: diventare uno scrittore. A confronto con una città aperta alle altre culture, ma immobilizzata da un lavoro che non c'è, il ragazzo si troverà ad affrontare piccoli problemi quotidiani, conoscendo i reali valori della solidarietà e dell'amore. Dopo Sonetaula, arriva quindi sui nostri schermi un nuovo film che tenta di affrancarsi da una visione superata dell'isola. Uscito da quattro settimane in Sardegna, con già diecimila spettatori all'attivo, Tutto torna sarà distribuito il 13 giugno nel resto di Italia. A dirigerlo è Enrico Pitzianti che ha presentato il film a Roma.

Enrico Pitzianti, nel suo film c'è una grande tristezza di fondo. Perché questa scelta per parlare della sua terra?

Enrico Pitzianti: Durante le proiezioni del film in Sardegna, la gente rideva, non perché nel film ci fosse una comicità da gag, ma per questi personaggi dal grande umorismo di fondo. Mi piaceva fare siparietti comici all'interno di un'atmosfera amara e di questo condominio così bizzarro. Credo che il film sia amaro, ma anche abbastanza ritmato e piacevole. Il nostro tentativo era quello di coniugare il contenuto con la leggerezza.

In questo senso ha scelto un finale agrodolce?

Il finale è stato travagliato. Ci sono state varie stesure della sceneggiatura e il finale rappresentava sempre un punto morto. All'inizio, nel 2004, era molto più duro, ma poi abbiamo pensato fosse superato. Il protagonista, infatti, finiva a lavorare in un call center. Così, abbiamo voluto riscriverlo facendo sì che l'emigrazione fosse vista come un'apertura, non come una costrizione com'è considerato spesso.

Nel film c'è il personaggio metaforico della vecchia, una donna che raccatta rifiuti per strada e vive in un condominio dal quale tutti vorrebbero scacciarla per il tanfo che emana il suo appartamento. Da dove nasce l'idea di questo personaggio?

L'idea del film parte proprio dalla vecchia. Vivevo a New York e c'era questa signora che abitava sotto casa mia e faceva davvero una vita simile a quella che si vede nel film. Era un personaggio strano: non parlava con nessuno ma era perfettamente inserita nel sistema della società di oggi. Per me è una figura biblica che a dispetto di tutto ritorna, una sorta di figura vincente. Alla fine lei raccoglie addirittura ciò che rifiutano gli artisti che fanno arte col riciclaggio. Per me era un pretesto per cucire tutta la storia condominiale che fa riferimento a quello che succede in tutti i quartieri: tutti parlando di qualcuno, ma nessuno sa la verità. Mi piaceva rappresentare questo vociare di quartiere attraverso la sua figura. Abbiamo discusso in fase di sceneggiatura se farla vedere in faccia e il mio sogno era farla interpretare da Brigitte Bardot.

Qual è il senso dei rifiuti nel film?

Mi piaceva il senso della ciclicità dei rifiuti legati alla figura della vecchia: i rifiuti che si riciclano tornano a nuova vita rimanendo sé stessi.

Come si è regolato con la scelta della lingua da far parlare ai personaggi?

A Cagliari si parla in italiano con intercalare dialettale e ho voluto che fosse così anche nel film, perché mi interessava essere fedele alla realtà.

Come ha conciliato il suo passato da documentarista con il cinema di finzione?

Non credo alla divisione netta tra documentario e cinema di finzione. Il maestro Vittorio De Seta ci ha insegnato che possono dialogare. Adesso ho girato in Africa un documentario sui bambini del Tuareg e ho capito che mi piace portarmi nel documentario le conoscenze del cinema di finzione e viceversa.

Come ha scelto il cast?

Il cast è stato costruito in maniera "artigianale", l'ho fatto io personalmente. Ho cercato il ragazzino protagonista per tutta la Sardegna in macchina. Per quel che riguarda gli altri, alcuni erano attori di teatro, gli altri non attori che ho cercato direttamente sul posto e che nel film interpretano sé stessi, dal barbiere al sarto. Ci sono poi figure come il politico, lo scrittore, l'usuraio interpretate da personaggi che andavano fisicamente bene per quel ruolo pur non essendo attori. Abbiamo lavorato molto con tutto il cast prima del film, un lusso che ci siamo permessi e che non succede quasi mai nel cinema italiano.

Come ha trovato Yonaiki Broch Montano?

Nel film c'era il personaggio del trans e avevo quasi rinunciato all'idea di utilizzare un vero trans, perché non lo trovavo. Pensavo ormai di farlo interpretare a una donna, poi sono andato a Cuba e un giorno mi è passata davanti Yonaiki, ho avuto il coraggio di fermarla per chiederle se le sarebbe piaciuto fare un film in Italia e lei ha detto di sì. Lei dice sempre che si sente come "una donna in galera nel corpo di un uomo" e a me piace molto questa definizione della sua condizione.

Qual è stato il lavoro in fase di colonna sonora?

Gavino Murgia è un musicista trentacinquenne sardo straordinario, un polistrumentista che fa parte dell'orchestra di Mauro Pagani e che considero un grande talento. Gli ho chiesto di fondere musiche e suoni etnici della nostra tradizione (come la fisarmonica) con le sonorità metropolitane. Abbiamo voluto alla fine un pezzo africano per confermare l'apertura: per un sardo che va, c'è un africano che arriva.