Recensione Battaglia nel cielo (2004)

Film-scandalo di Cannes 2005, questa seconda opera del messicano Carlos Reygadas si contraddistingue per la pura e programmatica volontà di provocare: questo intento toglie forza alla narrazione, e rende il film niente più che un vuoto esercizio di stile.

Effimere sgradevolezze d'autore

Città del Messico, ai nostri giorni. Marcos, un autista cinquantenne, ha appena rapito un bambino allo scopo di racimolare un po' di soldi: qualcosa, però, va storto durante il rapimento, e il bambino muore. Ossessionato dal rimorso, l'uomo non trova conforto in sua moglie, sua complice, che sembra preoccupata più del mancato guadagno dei soldi del riscatto; Marcos decide così di confidarsi con Ana, figlia del suo datore di lavoro e prostituta per puro piacere, verso cui prova una forte attrazione. Ma la confessione ad Ana non basterà per placare la voce assordante della coscienza di Marcos, il cui "percorso di redenzione" è appena iniziato.

"Film-scandalo" di Cannes 2005, accolto in modo trionfale dal pubblico della Croisette (che gli ha tributato dieci minuti di applausi), preceduto dalla piccola "aura" che gli si è già creata intorno per le sue scene di sesso esplicito: il secondo film del messicano Carlos Reygadas (che ha esordito nel 2002 con l'interessante Japón) è già un piccolo "caso" cinematografico, seppur nell'universo più confinato e meno esposto agli improvvisati sociologi della Settima Arte del cinema d'autore. E' un'opera ostica, questa di Reygadas, contraddittoria, di difficile lettura e piena di simbolismi non esplicitati (a partire dal titolo), non priva di un suo specifico fascino. Il regista ha voluto rappresentare l'ossessione di un uomo legandola indissolubilmente a una simbologia religiosa, e inserendo l'atto sessuale come contraltare, svuotato dal suo significato di liberazione e visto come estremo tentativo di comunicazione e ricerca di empatia. Ed è proprio nel descrivere questo contraltare, questa contraddizione tra la liberazione degli istinti e il silenzio della condivisione, che il film mostra i suoi limiti più evidenti: questa parte appare studiata, costruita a tavolino con lo scopo di shockare, di colpire l'occhio senza aver prima stimolato la mente. La sgradevolezza di alcune sequenze sembra gratuita, deliberatamente ricercata, senza nessun legame con la poetica che il film cerca di delineare.

Così, l'indissolubilità del legame tra ossessione e redenzione diventa più che altro un mero enunciato, annacquata com'è in un contesto di plastica programmaticamente votato al fastidio visivo. Così, i lunghi silenzi e i numerosi piani sequenza che "fanno" il fim non riescono a delineare un universo, ad uscire dai confini del gioco intellettuale furbo, ma facilmente smascherabile. Non mancano i momenti di ottimo cinema (un lungo piano sequenza che parte dalla stanza del protagonista per riprendere l'intera città vista dall'alto, un'opprimente gita in campagna, il lungo pellegrinaggio finale), ma questi restano confinati a sterile esercizio estetico, privo di una vera finalità: quello che manca è il calore, la capacità di far apparire reale la vicenda narrata.

I tre protagonisti danno comunque buona prova di sé, accrescendo i rimpianti per il deludente risultato del film: Marcòs Hernandez si adegua ottimamente alla progressione drammatica rappresentata, Bertha Ruiz è una moglie realmente sgradevole, Anapola Mushkadiz è enigmatica e irregolare, oltre ad essere molto bella. Prove che, insieme all'evidente talento sprecato di Reygadas, fanno pensare a cosa poteva essere, e non è stato, questo film: un trattato devastante sull'amore, sull'ossessione e la morte. Così com'è, purtroppo, resta una semplice provocazione che verrà presto dimenticata.

Movieplayer.it

2.0/5