Duello al sole in alto mare
Il postino Troisi definiva "tristi" le reti dei pescatori in quell'indimenticabile film di Michael Radford del 1994 che rappresentò il suo toccante congedo dalla vita. Oggi la deriva morale di un mondo in costante processo di autodistruzione ha portato il sangue dell'uomo anche su quelle reti, fatto scorrere dalla mano del suo stesso fratello, in un luogo di pace cristallina come è da sempre considerato il mare aperto. L'odio, la diffidenza, l'egoismo esasperato, amplificati dagli altoparlanti dei mezzi di comunicazione perversa di massa, hanno ormai cancellato ogni forma di lucidità nelle interazioni tra esseri umani e perfino i sentimenti più inattaccabili vengono oggi disintegrati dai venti del sospetto, soffiati con precisione certosina da chi beffa diabolicamente l'innocente per i propri interessi sotterranei, senza farsi alcuno scrupolo di chi resta coinvolto nella trappola. Così le vittime sacrificali dei piani dei potenti s'impegnano in battaglie private contro il proprio vicino, sancendo la sconfitta di una dignità mortificata da un clima di perenne ostilità.
Io, l'altro, primo lungometraggio del tunisino Mohsen Melliti, italiano d'adozione (per via di un esilio politico che il regista ha il coraggio di denunciare con grande vigore) è opera piccola dalle buone idee che pecca però d'inesperienza, caricata com'è di troppi discorsi accesi e poi risolti con troppa fretta o eccessiva prevedibilità. In quel non-luogo che può essere una barca in mare aperto (e vengono subito in mente le storie di ordinaria vita sulle onde raccontate da piccoli e grandi maestri come Kim Ki-Duk, Isabel Coixet e Mohammad Rasoulof) due pescatori, un siciliano e un tunisino, amici e soci da dieci anni, restano intrappolati in un gioco al massacro messo in moto da inquietanti notizie provenienti via radio, con una puntualità esasperata, che gettano sull'extracomunitario l'ombra della ferocia terrorista. Quell'altro che si credeva di conoscere diventa improvvisamente il nemico da neutralizzare, perché anche i più forti dubbi del cuore si lasciano imbavagliare con facilità dal verbo dei media, fatto passare come verità unica ed infallibile.
Raoul Bova e Giovanni Martorana sono i due singolari protagonisti di questo vero e proprio duello al sole nel Mar Mediterraneo: uno, romano, costretto a recitare in siciliano, l'altro, italiano, chiamato ad interpretare un tunisino dall'accento francese. Qualche passaggio appare così inevitabilmente forzato, ma la loro prova è nel complesso convincente, impreziosita da uno slancio vitale che fa trapelare tutta l'energia spesa nel progetto, nel quale Bova ha creduto talmente tanto da volerne essere produttore ed attore non retribuito per non gravare su un budget risicato. Il film parte bene, si lascia apprezzare per la sua fotografia suggestiva che sa restituire la bellezza di una simile location, e la placidità del tono iniziale fa quasi assaporare la vita e l'ansia del pescatore a lavoro. Purtroppo quando le ombre calano sui personaggi la storia si sfalda e la pellicola affonda progressivamente e in maniera inesorabile. Melliti ambienta questa tragedia del sospetto e del pregiudizio in mare aperto, ma di questo non sa recuperare il silenzio, imbottendo la sua pellicola di parole, commenti radio e di una musica ossessiva che nulla aggiunge alla storia, contribuendo solo ad appesantire la visione.
I personaggi cominciano d'improvviso una guerra senza senso le cui colpe vengono fatte ricadere tutte sul media radiofonico, ma l'insistenza con la quale la radio dirama le notizie, con una precisione e un tempismo francamente irritanti, è un autogol che spreca le buone intenzioni. Una visione decisamente semplicistica che fa dei mass media il vero propulsore del pregiudizio e del razzismo verso l'altro, in un mondo che si riempie la bocca di prescrizioni religiose, ma si dimentica totalmente di educare al rispetto nei confronti del diverso. Gratuito poi il recupero artificioso del dramma dei profughi che perdono la vita nei viaggi disperati sui barconi della morte, un passaggio di troppo che contribuisce soltanto ad allontanarci dai protagonisti costretti ancora a gesti estremi. E preferiremmo tacere sul lampo di follia kitsch del film, che vede un'immagine del volto di Padre Pio trasformarsi, con un morphing fin troppo elementare, in quella di Bin Laden, ma l'episodio è esemplificativo della perdita di sostanza di un'opera non riuscita che sa però trovare una buona chiusa in un onesto finale senza speranza, nel quale gli uomini, umiliati, sconfitti ed ingannati, finiscono irrimediabilmente col perdersi, destinati ad essere dimenticati.