Tra i beniamini della critica e dei cinefili di tutto il mondo, Jean-Pierre e Luc Dardenne, attivi già dalla fine degli anni Ottanta, sono fra i pochissimi registi in grado di vantare ben due Palme d'Oro al Festival di Cannes, la prima per Rosetta nel 1999 e la seconda per L'enfant nel 2005. Ma la loro carriera comprende anche altri film apprezzatissimi quali Il figlio, Il matrimonio di Lorna e Il ragazzo con la bicicletta, che tre anni fa è valso loro il Gran Premio della Giuria a Cannes e lo European Film Award per la miglior sceneggiatura.
Da giovedì prossimo approderà nelle sale di Roma e di Milano (e dalla settimana seguente anche in quelle delle altre città italiane) il loro ultimo lavoro, il bellissimo Due giorni, una notte, già proiettato fra calorosi applausi alla scorsa edizione del Festival di Cannes e selezionato come rappresentante del Belgio per l'Oscar come miglior film straniero. Un rigoroso ed emozionante dramma a sfondo sociale che vanta come protagonista una straordinaria Marion Cotillard (candidata allo European Film Award come miglior attrice) in una delle sue performance più intense nel ruolo di Sandra, un'operaia che ha disposizione un week-end per convincere i colleghi a rinunciare al proprio bonus di mille euro per permetterle di conservare il suo posto di lavoro. A Roma, per la presentazione del film, abbiamo incontrato i fratelli Dardenne, con i quali abbiamo conversato a proposito della loro nuova opera, fra i titoli da non perdere di quest'autunno...
Il cinema dei Dardenne
Qual è stato il punto di partenza per la storia di Due giorni, una notte?
Jean-Pierre Dardenne: Il punto di partenza del film è stata una notizia che abbiamo letto una decina di anni fa in merito a una persona licenziata da una squadra di lavoro all'interno di una divisione della Peugeot con il consenso dei colleghi, perché la sua debolezza e le assenze dal lavoro avevano impedito al gruppo di ottenere gli stessi premi di produzione delle altre squadre. In seguito abbiamo scoperto di situazioni analoghe che si sono verificate altrove, ma ciò che ci ha spinto a raccontare questa storia è la mancanza di solidarietà. È una vicenda che sarebbe potuta accadere anche a persone di nostra conoscenza.
In Due giorni, una notte, così come in parte anche ne Il ragazzo con la bicicletta, sembra che il vostro approccio stilistico e narrativo abbia subito delle lievi mutazioni rispetto al passato: siete d'accordo?
Luc Dardenne: La nostra impressione però è di non cambiare, infatti qui per esempio non abbiamo utilizzato la musica. La musica era presente al contrario ne Il ragazzo con la bicicletta, ma in quel caso lo avevamo deciso fin dalla sceneggiatura. La nostra sensazione è di fare sempre la stessa cosa, senza cambiamenti: la variante qui è stato il desiderio di far entrare Marion nella nostra famiglia, ma il nostro modo di fare cinema non è mutato. Abbiamo deciso di girare Due giorni, una notte in estate per simboleggiare come la protagonista fosse uscita da un periodo di depressione, quindi volevamo mostrare il suo corpo; inoltre volevamo mettere in scena anche il doppio lavoro dei suoi colleghi, e girare queste scene in esterni ha reso più facile il nostro lavoro.
La dignità del lavoro e la solidarietà
Nel film, i colleghi di Sandra sono sottoposti a una difficile scelta fra due opzioni: come mai non avete pensato a una "terza via", ad esempio una rivendicazione sindacale?
Luc Dardenne: La terza via è la via dello spettatore. Il nostro desiderio è stato quello di mostrare la situazione attorno a Sandra, che non è una donna forte ma al contrario molto fragile e priva di fiducia in se stessa. Sandra acquisterà fiducia e supererà le sue paure incontrando i propri colleghi, nel tentativo di convincerli a mostrarle la loro solidarietà e a farle conservare il suo lavoro. La prospettiva di uno sciopero in un'azienda di neppure venti persone sarebbe stata quasi inimmaginabile: inoltre, noi volevamo elaborare una diagnosi sull'assenza di solidarietà, oggi così diffusa. Del resto, la solidarietà si sviluppa sempre più facilmente in situazioni floride e di agiatezza, mentre nel film i dipendenti sono in una condizione di grande precarietà finanziaria, in cui anche i mille euro di bonus possono fare la differenza. In molti si schermano imputando questa situazione al loro capo, ma in fondo l'assenza di solidarietà deriva dalla paura e dall'egoismo, quando non ci si rende conto che la forza deriva invece dall'unità.
Come mai la vostra macchina da presa mostra spesso un profondo pudore nel riprendere i momenti più drammatici del film, come avviene per esempio nella scena in cui Sandra esce dal ristorante per poi scoppiare in lacrime?
Jean-Pierre Dardenne: Abbiamo provato per cinque settimane prima di iniziare le riprese e la scena del pianto di Sandra è stata una delle più difficili, perché non riuscivamo a trovare il modo giusto per metterla in scena. Cercavamo soluzioni troppo complicate, fino a quando non ci siamo resi conto che mostrare Sandra mentre si nasconde, celando il suo pianto alla macchina da presa, era il modo giusto per girare la scena: è come se, per esprimere di più, bisognasse mostrare meno, posizionando la cinepresa in quel punto. Bisogna riuscire a rispettare la giusta distanza per rendere conto del vissuto di una persona e, nel caso di Sandra, per raccontare i suoi sentimenti; diversamente si scade nella pornografia, e il cinema tende fin troppo ad estremizzare certe situazioni.
Il finale del film ha una dimensione utopistica o ritenete che possa aderire alla realtà?
Luc Dardenne: Il nostro obiettivo è comunicare al pubblico attraverso un'esperienza umana, in questo caso una liberazione dalle proprie paure. Io non parlerei di utopia, quanto piuttosto di trasformazione: la stessa trasformazione che ci auspichiamo possano avere gli spettatori guardando il film, mettendosi in discussione rispetto alle reciproche posizioni. Sandra, con il suo percorso, riesce ad influenzare i propri colleghi, e nella sua vulnerabilità il personaggio costituisce una sorta di elogio della fragilità.