Recensione Il papà di Giovanna (2008)

La storia gioca troppo in fretta le sue carte migliori occupando il resto del tempo a sviluppare il contorno tirando in ballo faziose dinamiche belliche e improbabili romanticherie da attempato teleromanzo.

Dramma di famiglia ai tempi del duce

Bologna 1938. Giovanna (Alba Rohrwacher) è una diciassettenne con problemi psichici, non bella, tenuta da suo padre Michele (Silvio Orlando) sotto una campana di vetro a riparo dalle sofferenze che il mondo esterno potrebbe infliggerle. Insegnante di liceo nella stessa scuola frequentata dalla figlia, l'uomo la tiene sempre sotto controllo, la incoraggia, la illude di essere attraente agli occhi dei ragazzi arrivando a barattare l'ammissione agli esami con uno studente pur di procurarle un appuntamento galante. Ma le conseguenze di tale gesto si trasformano in tragedia quando Giovanna, spinta dalla gelosia nei confronti del ragazzo, uccide a colpi di rasoio la sua migliore amica colpevole di essere troppo carina e troppo ricca, ma soprattutto di aver ballato con lui durante una festa. Per papà Michele è l'inizio della fine mentre mamma Delia (Francesca Neri), da sempre estranea al rapporto morboso che lega padre e figlia, rifiuta da subito qualsiasi contatto con la ragazza. Sentendosi indirettamente responsabile e colpevole di non aver cresciuto a dovere Giovanna, Michele regredisce mentalmente quasi a raggiungere i livelli della figlia, che grazie alla testimonianza degli psichiatri e in primis della madre, viene processata, dichiarata incapace di intendere e di volere e rinchiusa nel manicomio criminale di Reggio Emilia. Nel frattempo scoppia la guerra ed è tempo di mettersi a riparo dai bombardamenti...

Dopo la Roma degli anni Venti de Il cuore altrove e la Puglia del dopoguerra raccontata ne La seconda notte di nozze (in concorso alla Mostra nel 2005), Pupi Avati torna a raccontare un'altra delle sue affettate storie d'epoca a sfondo bellico con Il papà di Giovanna, secondo film italiano in concorso a questa 65ª Mostra del cinema di Venezia, ambientato stavolta nella sua Bologna, a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta. Tratto dall'omonimo romanzo da egli stesso scritto (appena uscito in libreria edito da Mondadori) il film si avventura in un intreccio di generi che abbraccia il thriller psicologico, l'affresco bellico/storico e il dramma familiare sullo sfondo del fascismo prima e della guerra poi. E fin quando si tratta di creare la suspense che conduce al momento topico (in questo si sa Avati è un maestro) e di costruire sullo schermo il simbiotico inquietante rapporto padre-figlia che fa da cardine alla storia, allora va tutto bene, non ci sentiamo di obiettare nulla al lavoro del settantenne navigato regista e scrittore bolognese. E' a metà del film, quando il fatto di sangue si è consumato, quando i personaggi hanno preso ormai la loro strada verso la redenzione e il dramma familiare si esaurisce trasformandosi nella puntata pilota di uno sceneggiato televisivo da terza età, che vengono alla luce tutti i difetti più ingombranti.

E' ineccepibile la Bologna ricostruita e rievocata da Avati con amore e dedizione, è apprezzabile lo sforzo scenografico e lo stile visivo dai colori seppiati che ormai sembra essere diventato il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Ma la storia gioca troppo in fretta le sue carte migliori occupando il resto del tempo a sviluppare uno sbiadito contorno tirando in ballo faziose dinamiche belliche (abbasso i comunisti e viva il fascismo perché allora sì che tutto andava bene...) e improbabili romanticherie da attempato teleromanzo. I personaggi, tutti delineati con estrema cura, sono incarnati da un mix perfetto di ironia e tragicità per quel che riguarda i due straordinari interpretati principali, Silvio Orlando e Alba Rohrwacher (non a caso premiata quest'anno col David di Donatello) ma per il resto visibilmente intorpiditi dall'inesperienza drammatica di alcuni degli attori secondari scelti più per blasone ed amicizia che per effettiva attinenza al ruolo (vedi Ezio Greggio, la bolognese doc Serena Grandi e a tratti anche una rigidissima Francesca Neri). Se ci aggiungiamo poi qualche intoppo storico-temporale (i personaggi sembrano invecchiare solo anagraficamente e mai nell'aspetto) e qualche pausa di troppo vediamo delinearsi davanti ai nostri occhi la sagoma di un'opera tutto sommato dignitosa dal punto di vista della ricostruzione visuale ma incapace di arrivare al cuore e di emozionare. Silvio Orlando è da applausi, la regia scolastica, la locandina ammicca diabolicamente alla commedia, il finale è da dimenticare, come tutta la seconda parte del film.

Movieplayer.it

2.0/5