Arriverà venerdì 6 aprile nelle sale italiane il fresco vincitore del premio Oscar come Miglior film straniero, Le vite degli altri, un thriller ambientato nella Berlino Est del 1984, che racconta i metodi infami con i quali la Stasi, la polizia segreta della DDR, controllava la vita delle persone ritenute nemiche della causa comunista. Ne parliamo con il regista Florian Henckel-Donnersmarck in conferenza stampa a Roma per presentare il film che sarà presto oggetto di un remake a cura di Sydney Pollack.
Donnersmarck, lei è un regista molto giovane e negli anni in cui è ambientato il film era solo un bambino. Che ricordo ha di quel periodo?
Florian Henckel-Donnersmarck: I miei genitori sono entrambi della Germania Est, ma sono venuti nella parte Ovest prima della costruzione del muro. In quel periodo io vivevo con la mia famiglia a Berlino Ovest, che in fondo si poteva considerare una piccola isola perché non era difficile andare ad Est a trovare i nostri parenti. Non ho fatto il film basandomi sui miei ricordi perché sarebbe stato un film noioso. L'interessante per me era entrare nelle vite delle altre persone. Mi ricordo molto bene l'atmosfera di paura che si viveva in quel periodo, lo sguardo costante della Stasi sulle persone. I miei genitori erano segnati sulle liste della Stasi come persone traditrici della causa comunista e quindi ci perseguitavano sistematicamente.
Ulrich Mühe, l'attore che nel film interpreta l'agente della Stasi, è sposato con una donna che in passato ha collaborato con la Stasi. Non deve essere stato facile per lui affrontare questo ruolo.
Di Mühe sapevo soltanto che era un attore di teatro molto famoso dell'Est, ma non sapevo avesse una relazione personale con la Stasi. Quando gli ho presentato la sceneggiatura si è mostrato molto informato e questo mi ha fatto pensare perché a me ci sono voluti quasi due anni di ricerche per conoscere certi dettagli. Quando abbiamo cominciato a girare siamo diventati amici e un giorno mi ha mostrato i suoi verbali della Stasi. Lui è stato una delle prime persone a chiedere e a ricevere i fascicoli della Stasi sul suo conto. Ogni persona in Germania ha diritto a vedere i fascicoli con le informazioni che la Stasi ha raccolto su di te, ma meno del 10% delle vittime si sono avvalsi di questa possibilità, perché la gente non vuole sapere ciò che è successo. Dei 200.000 collaboratori della Stasi so solo di due o tre persone che hanno ammesso questa collaborazione.
Il personaggio interpretato da Muhe è molto interessante perché ad un certo punto avviene in lui una sorta di frattura emotiva che lo apre al cambiamento.
Il protagonista è un idealista che crede ad un paradiso in terra che è il comunismo. Se leggi Marx è ti accorgi che è davvero infantile questa idea di tutti che lavorano poche ore al giorno e hanno la stessa ricchezza. Per me era importante che non ci fosse un momento specifico in cui questo personaggio cambiasse il proprio modo di pensare e di agire. Volevo che il cambiamento cominciasse quasi con la prima scena e che ci fossero tanti piccoli dettagli che aiutano il personaggio a cambiare, perché diffido sempre delle persone che cambiano da un momento all'altro.
Nel film c'è un equilibrio molto forte tra tutti gli elementi. Come è riuscito a raggiungerlo?
Il mio non è un film contro la DDR, anche se ammetto di non essere molto triste per la sua fine. Non volevo demonizzare, ma comprendere ciò che è successo e, se cerchi davvero di comprendere, questo equilibrio viene da sé. Volevo che tutti i personaggi venissero dal profondo del mio cuore. C'è una teoria della psicologia che dice che tutto è dentro di noi e il nostro carattere è solo quello che scegliamo di mostrare agli altri. Ho fatto un patto con gli attori di non giudicare questi personaggi, anche se credo che alla fine si percepisca quale sia la nostra posizione su questi eventi.
Quali sono state le difficoltà maggiori nella realizzazione del film?
Soprattutto i soldi. Non c'è cosa più difficile dell'essere un regista al primo lungometraggio. Quando fai il tuo primo film nessuno ti conosce e devi lavorare con una grande casa di produzione che di solito non ti lascia molta libertà. Io non volevo fare il mio film così perché volevo avere scritto nel mio contratto il controllo totale su tutto. Prima c'era un'autocensura tra gli artisti perché sapevano che comunque c'era la possibilità concreta di venire censurati, ma io credo che l'arte debba essere personale e libera per essere interessante. Ho dovuto lavorare con un budget molto limitato, un quarto di quello che normalmente hai per un film tedesco, ma c'è stata grande collaborazione, soprattutto da parte degli attori che hanno accettato di lavorare per meno del 20% di quello che prendono di solito. Per il resto ci sono stati produttori che mi hanno addirittura consigliato di riscrivere il film sotto forma di commedia perché solo così avrebbe funzionato, perché lo consideravano troppo tetro e intellettuale. Io però sapevo che questa era la strada giusta e il tempo mi ha dato ragione.
Come hanno accolto il film gli ex collaborazionisti della Stasi?
Nessuna delle persone che ho incontrato sembrava provare rimorso per ciò che avevano fatto. Mi è rimasta impressa una frase di un ufficiale della Stasi quando ho cercato di provocarlo per avere una sua reazione. Lui ha tentato di giustificare ciò che aveva fatto dicendomi che "era la guerra fredda e in una guerra ci sono altre regole".
Come è stato invece accolto dal popolo tedesco?
La maggior parte delle persone di cultura ha accettato questo film a braccia aperte, ma in generale ci sono stati due tipi di reazione. C'è stato chi ha criticato il film perché lo considerava troppo estremo, e altri che dicevano che in realtà quel periodo era molto più estremo. Non era mia intenzione descrivere il caso più o meno estremo, ma qualcosa che rappresentasse lo spirito di quei tempi. La generazione più vecchia, quella dei miei nonni, diceva che non era così terribile il periodo dei nazisti, ma questa è una prospettiva sbagliata perché non puoi capire realmente cosa è stato quel periodo se non eri al fronte o non eri ebreo, ma c'erano persone che sapevano bene cosa stesse succedendo.
Come giudica il cinema tedesco attuale che continua ad interrogarsi sul suo passato?
E' vero, una gran parte del cinema tedesco si sta interrogando sulla propria storia. C'è questa idea della psicanalisi che non puoi guardare al futuro o al presente se non hai capito il tuo passato. Nella storia tedesca ci sono tanti punti oscuri da analizzare e per fortuna lo stiamo facendo. In Giappone, invece, ci sono porzioni della storia totalmente tabù, soprattutto quelle di cui dovrebbero parlare per liberarsi. In Germania possiamo essere fieri e contenti di guardare al nostro passato senza cercare di nasconderlo.
Sydney Pollack ha dichiarato è interessato a realizzare un remake del suo film. Come si pone lei di fronte a questa eventualità?
Nel mondo dell'arte c'è questa idea della sacralità dell'opera e quindi l'idea di un remake fa spesso orrore. Penso che Pollack sia una persona molto seria e anche se ho ricevuto molte offerte per un remake del mio film, credo che lui sia la persona più adatta ad occuparsene. Pollack non vuole situarlo in Germania e fare lo stesso film, ma trasferirlo in un'altra realtà, che può essere quella degli Stati Uniti del Patriot Act o quella italiana del caso Telecom. Il tema del film è un'organizzazione di potere che non rispetta la sfera privata dell'individuo e penso che sia un tema universale e sempre attuale. Se Pollack vuole servirsi della struttura drammaturgia del mio film e portarla in un altro contesto io sono contento. D'altronde se non avessimo avuto la possibilità di rivisitare l'opera di Shakespeare tutta la nostra cultura non ci sarebbe stata.