Recensione It Gets Better (2010)

La regia è fresca e brillante e l'impaginazione delle storie narrate cerca di evitare gli aspetti più stereotipici del travestitismo: l'autrice poggia gran parte del contenuto sulla riflessione tra percezione interna ed esterna rispetto al proprio corpo e come queste possano non coincidere. Un'opera positiva, che ricuce i rapporti umani infranti dalle incomprensioni e dall'intolleranza.

Dolori trans-generazionali

La regista transgender Tanwarin Sukkhapisit, che aveva fatto scalpore con l'esordio Insects in the Backyard, presenta alla quattordicesima edizione del Far East Film Festival It Gets Better, che sembra essere una revisione del suo primo film, bloccato dal visto censura a causa della crudezza nella descrizione di un "cattivo" padre transessuale e per le allusioni alla prostituzione minorile.
Il terzo lungometraggio di Sukkhapisit ha un incipit che non può non ricordare una celebre commedia queer, cult del suo tempo, cioè Priscilla, la regina del deserto: un gruppo di allegre trans vanno all'aereoporto a prendere un ragazzo, figlio della "padrona" del loro locale, da poco defunto. Il giovane vorrebbe vendere il locale e tornare a Los Angeles, dove vive con la madre e, pertanto, appena messo piede al The Fountain gli si chiede di non prendere decisioni affrettate sul futuro di un posto importante per la vita di tutti coloro i quali vi lavorano. Ma le storie montate per analogie lontane sono tre: a questa, va aggiunta il ritorno nel villaggio natale di una trans di mezz'età, e la vicenda di un ragazzo che viene mandato dal padre in un tempio buddhista per iniziare il noviziato, dopo che questi l'ha colto a danzare coi vestiti della madre morta.

I tre personaggi sono legati tra loro da un filo che sembra esile e l'intreccio potrebbe apparire finanche pretestuoso, quando, nelle ultime battute della pellicola, con un efficace coup de théâtre, esse si unificano in una sola linea narrativa segmentata temporalmente. In particolare, si colgono alcune scelte registiche e di montaggio azzeccate per mantenere in sospeso la comprensione se fosse stato utile affiancare queste tre storie che alla base hanno gli stessi teimi: la non accettazione di una sessualità altra, la difficile convivenza col proprio corpo, il rammarico per affetti perduti.
La macchina da presa della regista thai si sofferma spesso sui volti e il corpo di un cast in formissima, composto prevalentemente da artisti transgender. A volte, nell'insistere su questi dettagli somatici la regista riesce a fare del riuscito umorismo, come il traumatico risveglio del ragazzo dopo una notte d'ebbrezza e di sesso con la ladyboy sua coetanea, o l'ironia sul travestito barbuto; in altri casi invece si presenta semplicemente la pelle che cambia della protagonista, transgender di mezz'età che sta lentamente invecchiando pur conservando il suo antico fascino.
Erroneamente accostabile a certo cinema almodovariano, It gets better è una commedia drammatica, in realtà piuttosto asciutta, che non si lascia andare a forzature drammaturgiche restando sempre credibile. Riesce anche nel difficile compito di sorprendere lo spettatore con l'inaspettata unità narrativa di cui si accennava prima: in tal modo Sukkhapisit sembra voler far emergere come il dolore individuale dei suoi personaggi si conservi intatto e anzi si erediti di generazione in generazione.
La regia è fresca e brillante e l'impaginazione delle storie narrate cerca di evitare gli aspetti più stereotipici del travestitismo: l'autrice poggia gran parte del contenuto sulla riflessione tra percezione interna ed esterna rispetto al proprio corpo e come queste possano non coincidere. Nonostante le sequenze apparentemente più delicate e drammatiche, It gets better è un'opera positiva, che ricuce i rapporti umani infranti dalle incomprensioni e dall'intolleranza e si chiude con un'elaborazione del lutto che riunisce una famiglia fino a quel momento solo virtuale.