Un film surreale per raccontare la miseria e la guerra senza cadere in facili stereotipi strappalacrime. Un'opera fuori dagli schemi sulla storia d'amore clandestina tra un rifugiato siriano e una domestica etiope nel Libano contemporaneo: si chiama Dirty, Difficult, Dangerous, è una co-produzione franco-italo-libanese e a Venezia 2022 ha inaugurato la sezione delle Giornate degli Autori. Ce ne parla il regista Wissam Charaf con un passato da giornalista e reporter nelle principali zone di guerra, e che qui si affida alla grazia della semplicità e al potere dissacrante del comico per firmare un cinema profondamente sociale.
Un film sociale
Una storia che guarda al sociale ma con leggerezza. Cosa ti ha ispirato?
Essenzialmente due cose. Nel 2012 vivevo in Libano, dove vivo ancora oggi, ed è iniziata la guerra in Siria. E nel quartiere dove abitavo abbiamo cominciato a vedere le strade riempirsi di profughi siriani che arrivavano quasi nudi, con null'altro se non i vestiti che indossavano; spesso li sentivamo ripetere questa filastrocca, che nel film recita anche il protagonista Ahmed, "Ferro, rame, batterie", con cui chiedevano alle persone di dare loro qualsiasi tipo di metallo usato per riciclarlo. Quando qualcuno gli portava qualcosa, lo caricavano sulle spalle e continuavano a camminare. Nello stesso tempo, nel quartiere abbastanza borghese in cui vivevo, vedevo spesso tante domestiche etiopi che camminavano portando a spasso i cani o i loro datori di lavoro, persone anziane che facevano la loro passeggiata quotidiana. E ho subito visto qualcosa che mi ha fatto pensare al mito di Sisifo: si aggiravano nelle strade come degli Atlante, ma erano infinitamente più deboli e piccoli. In quel momento ho sentito qualcosa, il cuore ha iniziato a battere e ho iniziato a pensare che avremmo dovuto raccontare quelle storie.
Come ci sei riuscito?
Non volevo fare un film che fosse l'ennesimo lamento o grido di sofferenza, perché questo è quello che succede di solito, è così facile far piangere le persone mostrando qualcuno piangere del proprio dolore. Zero senso del cinema, non mi piace. Così ho provato a immaginare un collegamento diverso e mi sono chiesto quale potesse essere il modo per ribaltare la situazione, e quello che ho pensato è che queste persone possono amarsi. E perché è interessante mostrare una storia d'amore? Perché agli occhi del borghese medio libanese con cui parlo spesso, quelle persone non hanno diritto a una vita sentimentale, o non le immaginano abbastanza umane per avere una relazione amorosa. Sono considerate dei subumani. Quindi mi sono detto: "Ok, questa è un'affermazione sufficientemente politica per interessarmi. Diamo una vita amorosa a quegli emarginati, ma non rendiamolo un film deprimente, pensiamo a realizzarne piuttosto uno gioioso e leggero". Tutti da una storia simile si aspetterebbero qualcos'altro: una ragazza che viene violentata, il ragazzo picchiato e fiumi di lacrime. Ma per me questo tipo di linguaggio non era interessante e ho pensato: "Cerchiamo di essere punk, raccontiamo una storia d'amore e portiamo qualcosa di non realistico in un ambiente estremamente reale".
Venezia 2022: La Nostra Guida ai 15 film più attesi della 79 Mostra del Cinema
Tra citazioni e riferimenti autobiografici
L'anziano di cui si occupa Mahdia è un vecchio colonnello in pensione, che nei suoi deliri ricorda Nosferatu. Era un riferimento voluto?
In realtà sono un fan del Bauhaus, però non potevamo permettercelo, costava troppo caro, invece le immagini di Nosferatu sono di pubblico dominio e abbiamo potuto utilizzarle più liberamente, questo è il problema che si ha con i film a basso budget. Volevo creare qualcosa che dal punto di vista artistico fosse fuori dall'ordinario, ma questo implicava che non dovessi lasciare da parte la questione dei datori di lavoro che maltrattano i loro dipendenti, perciò era importante per me far vedere l'anziano Ibrahim con la sua vestaglia da camera giallo fosforescente completamente in balia della demenza senile. Con quel colore ho voluto strizzare l'occhio al giallo di Dario Argento, mi piaceva far entrare in questa storia anche l'idea del film gotico.
Un film surreale per raccontare la miseria e la guerra. Come sei arrivato a questo tono? Avevi le idee chiare sin dall'inizio o la sceneggiatura è cambiata nel tempo?
Il film si basa su uno scostamento di piani sia a livello narrativo che in termini di lavorazione. Ho cominciato a scriverlo proprio qui a Venezia, quando nel 2012 sono venuto alla Mostra come giornalista. All'inizio era un film fattuale e con caratteristiche sociali, ci abbiamo lavorato in tre e volevamo che ci fosse un'idea di vampirismo alla base mantenendoci ancorati al sociale, ma non potevamo fare un film alla Ken Loach. Ci sono state diverse versioni, ci sono voluti dieci anni per realizzarlo e via via abbiamo inserito le parti oniriche, quelle da sitcom, e il resto. È un film sociale senza essere un film sociale. All'inizio è andato tutto velocemente, ma con la coscienza che non bisognava fermarsi. Ho cominciato a conoscere questa realtà come giornalista, scrivendone, facendo reportage sui rifugiati siriani e raccogliendo i racconti delle domestiche etiopi nelle case della borghesia libanese.
Il corpo di Ahmed va incontro a una trasformazione, quasi come fosse un supereroe. Qual è il suo superpotere?
Ahmed è un anti eroe. È vero, si trasforma in ferro, ma si arrugginisce, si decompone, all'inizio del film lo vediamo raccogliere il ferro per guadagnarsi da vivere, quel metallo ormai gli è entrato dentro e lo trasforma in un supereroe che però si decompone. Era per me anche un modo per far vedere come la guerra sia in realtà una cancrena tanto per chi la combatte quanto per chi la subisce: dentro ci si porta una tristezza che nessuno potrà cancellare. È una nostalgia di fondo che tutte le vittime di guerra si trascineranno dietro per una vita intera. Ahmed guadagna la libertà, ma nello stesso tempo si decompone. Mi sono in parte ispirato alla mia personale vicenda, quando avevo nove anni infatti sono stato colpito da una granata israeliana durante la guerra in Libano e ho ancora delle schegge sparse dentro il corpo, in testa, sulle gambe, ovunque e ogni tanto ne viene fuori qualcuna.