C'è un po' del primo Hitchcock e di quell'espressionismo tedesco che ha forgiato mostri e paure negli spazi di un bianco e nero suggestivo e penetrante in Die Theorie von allem (The Theory of Everything). Ma a ben guardare, nel film presentato in concorso alla 80.esima edizione della Mostra del cinema di Venezia si muove silente anche lo spirito de La fiamma del peccato e dei suoi vetri smerigliati, del noir classico, di Reed e del suo Il terzo uomo e dei più tipici film di montagna (i cosiddetti Heimatfilm) del cinema classico tedesco.
Come sottolineeremo in questa recensione di Die Theorie von allem, ogni rimando cinematografico si fa manifesto di un archivio storico da recuperare per narrare un argomento quanto mai attuale come quello del multiverso. Una scelta interessante, soprattutto se si considera la Settima Arte come parassita del visivo capace di opporre resistenza all'ambiziosa onnipotenza cognitiva dello sguardo. Una frattura fra vedere e conoscere che nel contesto di esistenze alienanti, molteplici, e co-esistenti, l'opera dell'ex direttore della fotografia Timm Kröger tenta di acuire con valenza di intenti, ma debolezza di concretizzazione. Un'occasione riuscita a metà e perdutasi nei meandri profondi di una grotta ai piedi delle gelide montagne svizzere.
Die Theorie Von Allem: la trama
1962, Johannes è un giovane dottorando di fisica chiamato a partecipare a un convegno tenuto in un hotel tra le Alpi svizzere. L'attesa, soprattutto quella del protagonista, è tutta rivolta per l'intervento rivoluzionario di uno scienziato iraniano sul tema della meccanica quantistica, ma lui e la sua chiacchierata "teoria del tutto" tardano a farsi vedere. Mentre gli invitati cercano di ingannare l'attesa con cene eleganti e uscite sugli sci, Johannes fa la conoscenza della pianista Karin, una misteriosa donna che sembra conoscerlo molto bene. Quando un fisico tedesco viene ritrovato morto, un'inconsueta formazione di nuvole fa la sua comparsa nel cielo. Karin scompare senza lasciare traccia. Johannes comincia a credere che la soluzione a tutti questi enigmi possa nascondersi nelle profondità della montagna.
Ingranaggi perfetti in macchine narrative imperfette
In una lotta continua tra ciò che si vede, ma non si comprende, Die Theorie von allem tenta di scardinare gli assetti mettendo a confronto una tematica complessa e a tratti inafferrabile come quella del multiverso, con un intreccio di matrice classica sia nell'impostazione narrativa, che nell'estetica visiva. Ma qualcosa in questo meccanismo teoricamente all'avanguardia non funziona. I due ingranaggi non combaciano tra di loro, finendo per depotenziare ogni ambiziosa premessa. Sostenuto da un bianco e nero tanto sublime esteticamente, quanto destabilizzante inconsciamente, il comparto visivo perde l'equilibrio, gettato nel precipizio sia dalle mani di una narrazione impreparata a tenergli testa, che da quell'aspirazione latente a una complessità cervellotica - ma comprensibile a tutti - sconfinata ben presto in una resa semplicistica e incompleta.
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Teoriche osservazioni
Nessun gioco di montaggio pronto a congiungere e lasciare coesistere universi temporali che si sovrappongono in Die Theorie von allem; e nemmeno una regia dinamica, pronta a scuotere e disorientare il proprio pubblico all'interno di un ambiente prigioniero di una routine identica a se stessa. Il multiverso del film di Timm Kröger è lasciato nei confini della teoria, della portata verbale di un suggerimento concettuale che fatica a incorporarsi in un elemento visivo e per questo credibile. La procrastinazione continua dell'incontro/scontro dei vari universi, se inizialmente rientra perfettamente in quel gioco attrattivo e seducente che accoglie lo spettatore all'interno di questo sistema cervellotico, a lungo andare finisce per respingere il proprio pubblico, investendolo da tante ipotesi e poche concretezze, domande e poche risposte.
I punti di svolta sono balbettii di pensieri e di idee che nascono ma non sempre si concretizzano. Il regista cerca di provocare nello spettatore un turbamento tale da inserirlo nei meandri più intrinsechi della storia, costringendolo a cercare una mancata reazione o, per meglio dire, una "non-azione". Lasciando che siano i personaggi a muoversi sullo schermo, a parlare, a scrutare verità nascoste e volutamente ritardate nella loro rivelazione, Die Theorie Von Allem blocca il proprio pubblico nel suo ruolo di osservatore passivo, limitato a guardare, capire, mettere insieme i tasselli di un'opera che tanto vorrebbe dire, emanare, condividere, ma che finisce per rimanere fredda, come quel manto di neve che tutto avvolge e immerge, gelando gli animi.
Fatti, non parole
Non vuol essere un'opera labirintica, Die theorie von allem. Affidando la propria forza a una linea narrativa che poco si intreccia con quella di altre, possibili, parallele, pone la propria forza sia su un impianto visivo suggestivo, di altri tempi, che a un intreccio che cerca di vestirsi di semplicità, per appesantirsi di teorie, intuizioni e poche certezze. Gli intenti nell'opera di Kröger si possono intuire, senza capirli e assimilarli veramente, creando una distanza incolmabile tra sé e i propri spettatori. E nulla può quella lotta sublime ed espressionistica di un bianco e nero che prende, recupera e riflette, senza scale di grigi, le ossessioni, i timori e le speranze spezzate del proprio protagonista; e men che meno può la performance minimalista, giocata in sottrazione e mai fuori fuoco, di nei panni del giovane dottorando Johannes; ricercando quell'esperienza sublime à la Dark, Die Theorie von allem si fa saggio e trattato di fisica quantistica, dimenticandosi di concretizzarsi completamente in opera visiva, arte cinematografica, finestra su incubi e tensioni, paure e inganni.
È un abito esteticamente impeccabile, Die Theorie von allem, ma affidato a un corpo fuori misura che si ostina a far suo, a indossarlo, con il rischio di sfilacciarlo e distruggerlo. E l'abito di The Theory of Everything, in effetti, si è rotto, la sua cerniera ha ceduto, lasciando spazio a buchi, mancanze, allentamenti ed elucubrazioni respingenti, incapaci di colmare le lacune, ricucire le fratture.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Die theorie von allem sottolineando quanto a volte un'impostazione visivamente di impatto non riesca a colmare una narrazione fin troppo radicata nella complessità delle proprie ambiziose teorie. Quella di Tim Kröger è un'opera che si dimentica di concretizzare le proprie aspirazioni in punti di svolta ed epiloghi narrativi. Peccato, perché la volontà di trattare un argomento attuale come il multiverso con una narrazione classica poteva essere di forte impatto e grande interesse spettatoriale.
Perché ci piace
- La fotografia in bianco e nero.
- I rimandi continui al cinema classico.
- La perfomance di Jan Bülow.
Cosa non va
- L'aggrapparsi a una narrazione cervellotica, fatta di teorie e poca sostanza.
- Un intreccio sfilacciato che finisce per non risolversi veramente.
- Una regia poco coraggiosa.