Recensione L'età dell'innocenza (1993)

La regia di Scorsese ha la stessa tragica compostezza della storia e della prosa di Edith Wharton, ed è tra le più equilibrate ed allo stesso tempo sbalorditive prove del regista italo-americano.

Diabolica innocenza

Se con il recente Gangs of New York Martin Scorsese ha raccontato la New York delle strade e delle bande di malavitosi di Five Points, con questo L'età dell'innocenza - tratto dall'omonimo romanzo premio Pulitzer di Edith Wharton - aveva tratteggiato con eleganza ed intensità quella dei palazzi e delle sale da ballo: i newyorkesi che popolano questa pellicola sono borghesi altolocati ed abbienti, quasi tutti appartenenti alle famiglie più anticamente stabilitesi in quella che era allora New Amsterdam, una colonia olandese.
I protagonisti di questo Scorsese, al contrario di quelli di Gangs, non hanno problemi di territorio, né di sopravvivenza, né di vendicare torti passati, ma l'unico assillo del decoro e della rispettabilità di fronte ai loro pari.
Per questi newyorkesi degli anni '70 del diciannovesimo secolo, la contessa Ellen Olenska, che è sfuggita ad un matrimonio infelice in Europa ed è tornata tra i suoi, è una donna irrimediabilmente compromessa, che i familiari dovrebbero avere il buon senso di sottrarre alla vista della buona società. Ma Ellen, che è vissuta all'estero sin da bambina e ha ricevuto un'educazione "eccentrica" rispetto ai modelli dei suoi concittadini, di questo non si rende conto, e giunge persino a concepire l'idea folle di chiedere il divorzio al conte Olenski. Per evitare una simile ignominia, la famiglia chiede al giovane avvocato Newland Archer, che sta per sposare proprio la cugina di Ellen, May Welland, di intervenire e per far rientrare nei ranghi la contessa. Newland otterrà un successo di cui finirà per pentirsi amaramente, perché la frequentazione di Madame Olenska gli farà capire la falsità dell'ambiente in cui è sempre vissuto e dei valori che sta sposando in May, e gli aprirà gli occhi sui suoi veri desideri. Ma nel momento in cui Newland si sarà reso conto di amare Ellen e di voler abbracciare la vita che lei rappresenta, per loro sarà troppo tardi: la contessa non potrà sconfessare il sacrificio fatto per amore dell'amico e della cugina, e Newland dovrà sposare May. Una rinuncia che renderà questo amore, nel ricordo, ancora più vitale ed ardente.

La regia di Scorsese ha la stessa tragica compostezza della storia e della prosa di Edith Wharton, ed è tra le più equilibrate ed allo stesso tempo sbalorditive prove del regista italo-americano. L'attenzione al dettaglio e alla perfezione estetica di ogni inquadratura rispecchiano l'affettazione e l'etichetta di un mondo in cui ogni elemento ha un posto preciso dove essere collocato: i candelieri su una tavola imbandita con precisione millimetrica, i quadri alle pareti, i cuori degli esseri umani. Anche il virtuosismo regististico, l'apparente freddezza con cui si dipana la narrazione non fanno che soffondere l'ardore delle anime dei protagonisti: Newland, un personaggio che forse perde qualcosa rispetto al romanzo della Wharton, che lo metteva in una luce più crudele di quanto non faccia questa sceneggiatura, ma che resta intrigante e complesso grazie all'interpretazione, composta ed intensa, di Daniel Day-Lewis, ed Ellen Olenska, che ha il volto luminoso di Michelle Pfeiffer, qui straordinaria nell'incarnare orgoglio, vigore e fascino magnetico, e allo stesso tempo a mostrare la fragilità e l'impotenza della contessa. Un'ottima prova anche quella della ventenne Winona Ryder, che presta le sue delicate fattezze a May Welland, ritratto di una purezza esteriore che si rivela falsa e artificiosa quando si solleva la maschera sulla sua volontà manipolatrice.
E' attraverso il contrapporsi tra May e la cugina che il senso profondo di questa storia, e gli intenti del regista, si scoprono in un'amara epifania: la vera innocenza è coperta di vergogna, isolata, emarginata, mentre il calcolo e l'egoismo, al servizio di una rispettabilità di facciata, hanno l'ammirazione di tutti. Un atroce controsenso evocato in maniera ingegnosa da un regista da sempre spietato con le contraddizioni e le infamie d'America, che fa di quello che ad uno sguardo superficiale può sembrare solo un romantico affresco d'epoca e un trionfo di grandeur scenografica, uno tra i lavori più profondamente coerenti, e belli, dell'intera filmografia di Martin Scorsese.

Movieplayer.it

5.0/5