Recensione Savage Grace (2007)

Al centro delle vicende le tribolazioni emotive di una donna fragile e affascinante, sposatasi con l'aristocratico magnate Brooks Baekeland e ossessionata dall'inadeguatezza della sua classe sociale

Dalla culla all'incesto

A volerlo immaginare prima di vederlo Savage Grace non suggeriva aspettative particolarmente allettanti. Ma se da una parte, la trasposizione biografica di Barbara Daly, tratta dal libro di Natalie Robins e Steven ML Aronson, inquietava non poco per potenziale sperpero di eros e thanatos, dall'altra la curiosità per l'improvviso ritorno alla regia di Tom Kalin -- uno che qualche numero al periodo dei suoi esordi all'interno di quel caotico ma stimolante calderone denominato new queer cinema lo aveva messo in mostra - equilibrava l'equazione. Peccato che poi quando in Savage Grace ci si imbatte a luci spente, la tentazione più sincera è la fuga e ogni curiosità scema di fronte alla stucchevole ridondanza di un dramma algido e sonnolento. Al centro delle vicende le tribolazioni emotive di una donna fragile e affascinante, sposatasi con l'aristocratico magnate Brooks Baekeland e ossessionata dall'inadeguatezza della sua classe sociale. Un'unione fragile e conflittuale che è ancora più compromessa dalla nascita di Tony, con il quale Barbara instaura un rapporto sempre più possessivo, come reazione al distacco e all'arroganza del marito. Un percorso diviso idealmente in sei atti dal 1945, anno della nascita di Tony, al 1972, anno della morte di Barbara.

Sottolineato da un'insistente voce off che fa capolinea sin dalla prima scena e accompagna ogni snodo narrativo in stile noir e da una colonna sonora tronfia e invasiva Savage Grace è un film vecchio (nell'accezione più negativa del termine), piatto e mortifero; imbalsamato in una forma obsoleta e gettato sulle spalle ormai fragili di una Julianne Moore scoraggiante e immutabile (anche nel trucco che dimentica di sottolineare un percorso temporale di trent'anni) e di un insopportabile Eddie Redmayne.

Il cammino autodistruttivo dei personaggi genera distanza, quando non rabbia; di certo mai empatia, anche a causa di un registro emotivo volutamente trattenuto, ma che non risparmia alcuni momenti di cattivo gusto in termini di scelte estetiche e una prevedibilità assoluta. Il livello di relazione tra i personaggi - che appaiono improvvisamente e si susseguono senza mai una vera giustificazione narrativa - è sempre e esclusivamente sessuale. Una sessualità fredda e ostentatamente morbosa, come da manifesto del melodramma torbido e intellettuale. Prima come dinamica di potere nel rabbioso rapporto anale con cui Brooks domina con disprezzo Barbara, poi di atto in atto come affermazione e ricerca della propria individualità (e guarda caso siamo nel 1968) e infine come esemplificazione della noia e del disagio esistenziale, da sano stereotipo dell'autodistruzione.

Tutte tappe provvisorie di un incesto suggerito ossessivamente e insistentemente, coniugando il verbo voyeuristico insieme a un istinto moralista e che si abbatte sullo spettatore, con una frontalità raggelante, prima affermata inequivocabilmente e poi improvvisamente tradita, per far spazio a una frettolosa catarsi che si fa esplicita nel definitivo conflitto successivo.