Cuore cattivo di donna
E' strano come il cinema italiano risulti talvolta particolarmente incisivo quando racconta uno degli aspetti più desolanti tra quelli che definiscono il nostro paese: la criminalità. Mafia e camorra sono cancri incurabili già ampiamente indagati sul grande schermo, mentre meno attenzione è stata concessa alle altre organizzazioni mafiose che sono o sono state presenti sul territorio italiano. Ad essere svelata è ora la Sacra Corona Unita, di base in Puglia e particolarmente attiva tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, poi debellata con successo dallo Stato. Accade in Galantuomini di Edoardo Winspeare, presentato in concorso al Festival di Roma, opera preziosa che sospira per ciò che è stato, ma deve fare i conti con l'infame realtà di quel che è seguito. Winspeare nel suo film mette in scena incontri improbabili, i poli all'apparenza opposti destinati ad attrarsi anche in un campo minato, e per farlo parte dall'innocenza, dall'infanzia incontaminata di un tempo purissimo, speso in una terra florida di meraviglia che offre la possibilità della scoperta. Su un tappeto di pomodori secchi s'accende un'amicizia che lega tre bambini che la vita condurrà su diversi sentieri, destinati però a incrociarsi nuovamente nei punti prediletti dagli incidenti.
Perché la terra non si difende da sola, e gli uomini seguendo indole ed eventi che sfuggono al controllo, giungono spesso oltre i confini del lecito, del sopportabile, s'arrischiano in territori ostici che troppo spesso s'illuminano di esplosioni. Galantuomini ritrae un Salento in un divenire che è involuzione, dove la criminalità nata dal niente poggia sulla ferocia di ragazzotti ansiosi di far male, ma mancanti di sagacia e progetti intelligenti. La loro è una mafia da bar, che fa diventare serio il gioco con l'obiettivo di comprare la squadra del cuore. In questo marcio sboccia un fiore di donna, una femmina verace col pallino del comando, che esercita sommessamente, e che conosce la sola legge della violenza per sopravvivere in un mondo di stupidi, stupidi uomini. A lei il regista offre una possibilità e ci costruisce sopra la sua opera, testando nello stesso tempo i freni del bene: un magistrato galantuomo, amico d'infanzia che torna nella sua vita scatenando un corto circuito in cui l'amore è costretto a scendere a patti con una scomoda realtà.
Galantuomini è un film fisico, carnale, in cui i corpi vengono prima di tutto il resto, possono sconfiggere e mettere a tacere la ragione ed esserne fregati contemporaneamente. Winspeare esce fuori dal centro, abbandona la prima parte del film alla bellezza del Salento, che è quello di quarant'anni fa, immagine di una purezza ormai sciupata che è anche quella dei protagonisti persi tra bene e male. Poi il film perde i suoi colori saturi, che s'accontentano di riscaldare solo i flashback che riportano continuamente a un tempo che non è più, suscitando la proverbiale nostalgia canaglia. Naturale che un'opera che ha la seria intenzione di fornire un'immagine reale del nostro paese sia destinato a sporcarsi. Torna perciò un tema un po' abusato come quello della criminalità, col concerto già noto di omicidi, ritorsioni e sangue che cola, anche se in questo caso s'ammazzano tra loro e finché è così tutto bene.Ma quello di Winspeare è anche un film visceralmente femminile, che stupisce per la sua capacità di entrare a fondo nei respiri di una donna, alla quale presta corpo e anima una Donatella Finocchiaro commovente per la sua bravura. L'attrice prende sulle spalle un film che talvolta sbanda e rischia di entrare nel pericoloso territorio del già visto e dell'implausibile, ma la Finocchiaro lo riporta ogni volta sul suo personaggio, cuore cattivo che ammalia e intontisce, sul quale il regista dipana saggiamente le sue trame. Addosso a lei appende così una storia d'amore impossibile, che prova a scrollarsi di dosso i blocchi morali per vivere solo d'istinto. Seppure il rapporto tra i due protagonisti (l'altro è Fabrizio Gifuni, per una volta brillante) non conquisti mai totalmente l'interesse dello spettatore, rischiando grosso nel suo elaborarsi, ancora una volta si ravviva grazie al talento del regista nello scolpire cone estrema sensibilità le emozioni senza azzardare troppo e all'intenso coinvolgimento della Finocchiaro, convincente in ogni azione e decisione. Come quella finale che regala al film uno splendido epilogo aperto che è anche l'unico possibile.