Criminal Regno Unito 2, la recensione: il teatro del male

La recensione di Criminal Regno Unito 2, la serie Netflix in cui il male trova casa nella normalità.

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Criminal: Regno Unito 2: una foto di scena della stagione 2

C'è un qualcosa di austero e fiero nel modo di muoversi e parlare degli inglesi. Un'eleganza di porsi, la loro, tale da rendere interessante, calmo e mefistofelicamente coinvolgente anche un momento psicologicamente alienante come quello degli interrogatori polizieschi. Le urla, immancabili, sono immediatamente controbilanciate nella potenza del loro sconvolgimento emotivo da sospiri e sguardi intensi, che nulla hanno da invidiare a quelli di attori teatrali pronti a calcare il palco sfidando la forza di centinaia di occhi puntati su di loro. Ed è così che, come sottolineiamo nella nostra recensione di Criminal Regno Unito 2, la serie Netflix intende mostrare i propri personaggi nella sua versione inglese.

Giostrata su un'intelaiatura narrativa e visiva dallo spiccato rimando all'universo teatrale da cui l'intera arte britannica sembra prendere le mosse, la serie scritta da George Kay si ancora ai punti di forza che hanno sancito il successo della prima stagione per trainare la nave al porto, lasciarla riposare per qualche mese per poi rifornirla di nuove, indispensabili, idee registiche e interpretative grazie alle quali far salire a bordo i propri spettatori e condurli verso acque in tempesta, scaturite da uomini e donne sull'orlo del tracollo, sospesi sul baratro della propria, perduta, umanità.

TUTTO IL MONDO è UN TEATRO ABITATO DA DIAVOLI

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Criminal: Regno Unito 2: una scena della stagione 2

"Tutto il mondo è teatro", asseriva William Shakespeare nel suo Come vi piace, e quello di Criminal è un palcoscenico di demoni caduti in terra, che si fanno largo tra le superfici epidermiche e oculari di attori sopraffini, capaci di tenere a freno la loro mimica facciale, senza mai rasentare il rischio di un altrimenti inevitabile over-acting. Prodotti eccellenti di una gavetta costruita tra le assi impolverate di palcoscenici teatrali, Kit Harington, Sophie Okonedo, Sharon Horgan e Kunal Nayyar prendono fieramente il testimone lasciato loro da David Tennant, Hayley Atwell e Youssef Kerkour, dando vita a una giostra di peccati e peccatori sostenuta da un altrettanto superbo cast fisso dominato da Lee Ingleby e Katherine Kelly. Nelle vesti di un palcoscenico teatrale dove spettatori-agenti si nascondono dietro sipari fatti di vetrate, i criminali della serie firmata Netflix diventano figli del più perfido Macbeth, e con le mani insanguinate si pongono alla ricerca di uno sguardo amico, colmo di pietas; uno sguardo complice a cui aggrapparsi e su di esso tessere la propria rete fatta di fittizia innocenza. Regale, furbo, melodrammatico: ecco l'identikit del perfetto criminale ideato da Kay. Un prototipo su cui giocare e da manipolare a proprio piacimento, infondendolo di caratteristiche verosimili tali da renderlo terribilmente umano. Ogni attore si avvicina con timorosa riverenza al proprio ruolo, lo studia, per poi generare un personaggio freddo, calcolatore, un architetto di castelli di carta dentro cui far risiedere e ingabbiare le emozioni proprie e altrui, dimenticandosi, però, di sigillare la porta. Perché in questa ricostruzione chirurgica c'è sempre uno spiraglio che rimane vuoto, ed è proprio sfruttando tali debolezze che i poliziotti riusciranno a far breccia all'interno di queste fortezze, distruggendo mattone dopo mattone questo microcosmo alternativo. In un perfetto gioco di scatole cinesi, il cast si ritrova a interpretare attori alla seconda intenti a portare in scena sul sipario della vita un proprio personale spettacolo, al cui termine non ci saranno battiti di mani, ma manette fredde, gelide, come la loro anima.

GLI OCCHI COME SPECCHI DELL'ANIMA (NERA)

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Criminal: Regno Unito 2: una scena della stagione 2

Se è vero dunque che ad attorniare i criminali infusi di vita dalle parole di George Kay sussista un'aura di timorosa e mefistofelica eleganza, la calma apparente che pervade lo schermo è figlia legittima della cultura inglese. Frammenti di un atteggiamento sociale riverberante quello tipico del proprio paese, i caratteri dei personaggi diventano sfumature di uno spettro comportamentale riflettente quello nazionale, rendendo spettatori e interpreti tutti uguali, tutti complici, tutti vittime e carnefici. Schiera di uomini e donne insospettabili e dall'indole riservata ("e se non le credano, faccia in modo che glielo dicano. Non facciano i soliti inglesi riservati" affermerà il personaggio di Julia Bryce nella puntata inaugurale di questa seconda stagione), quelli immortalati dalla macchina da presa di Jim Field Smith sono l'incarnazione di una follia dilagante e un istinto animalesco pronto a prendere il sopravvento sulla razionalità umana. La cieca follia celata sotto il manto dell'ordinarietà; ecco dove gli autori suggeriscono di cercare il marcio della società: tra gli uffici di un agente immobiliare, di una moglie devota, di un pentito o di una paladina delle adolescenti inascoltate. L'occhio artificiale di Smith non ha paura di indugiare con sguardo attento e chirurgico ogni minima esitazione, riducendo allo stesso tempo la distanza affettiva che separa personaggio e spettatore. Gioco psicologico dove l'occhio del pubblico si affianca, per poi sostituirsi, a quello degli interrogati, gli stessi agenti si fanno doppi diegetici di ogni singolo spettatore. Separati da superfici riflettenti dai propri sospettati, detective e poliziotti analizzano con sguardo attento la performance di questi interpreti della criminalità attraverso un vetro, reduplicando il tipico atteggiamento di critici spettatori davanti a uno schermo televisivo. La regia non si lancia mai in virtuosistici movimenti, relegandosi piuttosto in primi piani ristretti e piantonati sugli occhi dei propri personaggi, ossia su quei canali visivi che mettono in comunicazione l'esterno con l'animo di questi uomini in bilico tra la libertà e l'eterna dannazione. Lo sguardo degli interrogati si pone dunque sulla stessa asse visiva di quella degli agenti e degli spettatori a casa: un'uguaglianza che lascia libero il proprio pubblico non solo di giocare al poliziotto cattivo avanzando ipotesi e sospetti, ma entrando al contempo in contatto empatico con ognuno dei personaggi sullo schermo, condividendo timori, paure, e fragile strafottenza.

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Criminal: Regno Unito 2: un'immagine tratta dalla stagione 2

È nel gioco di squadra, o nel tentativo di mettere a proprio agio l'interrogato, che si fanno largo inquadrature più ampie, attraverso cui riunire visivamente - ma non sempre empaticamente - i protagonisti sulla scena con totali e campi lunghi. Il resto è una gara di sguardi tipica dei migliori film western. Una battaglia all'ultima rivelazione dove il sangue delle vittime scorre tra le pause di parole pensate, elucubrate, soppesate dai loro carnefici. Incorniciati da riprese angolate, la cinepresa taglia a pezzi i corpi dei propri protagonisti. È una destrutturazione del corpo attoriale, una dissezione accurata con cui ridare frammenti di un'umanità a pezzi, incapace di tornare indietro e di rimettere a posto le cose, riportandole al loro stato originario. Al resto ci pensano agenti colti sempre insieme, parti indispensabili di una macchina ben oliata progettata per risolvere questo rompicapo tinto di mille sfumature di una violenza silente, (dis)umana, immobile, gelida, come il sangue che scorre tra le vene di questa galleria di diavoli ascesi in terra. Trascinato da un Kit Harington mai così in parte, una Okonedo da brividi e un Nayyar che si sveste degli abiti del nerd timido di The Big Bang Theory, per abbigliarsi di freddo autocontrollo e reverenziale timore, Criminal si trasforma in una giostra del macabro travestito da una quotidianità sciatta e insospettabile. Prende a prestito i casi di cronaca per mescolare ciò che è possibile a ciò che è reale, la finzione al verosimile. Grazie a una scrittura attenta, mai banale, la serie si apre a tribunale televisivo dove i detective sono Erinni silenziose pronte a infiltrarsi nel cervello del sospettato per fargli vomitare la realtà. Campi e contro-campi, scenografia essenziale, sguardi in camera che sembrano monologhi shakespeariani (intenso a tal proposito Kit Harington nei primi minuti del secondo episodio), semplicità e una scrittura alacre e ingegnosa, grazie a pochi ingredienti Criminal si riconferma uno dei prodotti più interessanti del catalogo Netflix. Un'escalation di emozioni che parte dalle lacrime della prima puntata giungendo alla crudeltà più pura, nascosta dietro ombre di urla ricolme di rabbia e rancore, e silenzi inquietanti scaturiti dal quarto e ultimo episodio: questo, in sintesi, Criminal, una serie per cui il vero crimine sarebbe lasciarsela scappare.

Conclusioni

Concludendo la nostra recensione di Criminal: Regno Unito 2, quello proposto sulla piattaforma Netflix è un prodotto solido, coinvolgente nella sua semplicità, che non ha paura di indagare il salto dell'essere umano nel mondo della criminalità. Giocando tra gli spazi di un solo ambiente di azione, la regia gioca con lo sguardo dei propri protagonisti, sempre in bilico tra umanità con cui simpatizzare e istinto primordiale da sopperire e dimenticare.
I detective capitanati da Lee Ingleby sono chiamati a tenere testa a criminali umanamente fallibili e mefistofelicamente attrattivi grazie alle interpretazioni sublimi di Kit Harington, Sophie Okonedo, Sharon Horgan e Kunal Nayyar. Al resto ci pensa una sceneggiatura tagliente e mai prevedibile, sostenuta da un'ottima regia.

Movieplayer.it
4.0/5
Voto medio
2.1/5

Perché ci piace

  • La regia intima, ferma, giocata sui primi piani.
  • Attori sempre in parte e mai in over-acting.
  • Una scrittura coinvolgente e mai banale.
  • L'unicità dello spazio d'azione pronto a trasformarsi in teatro del macabro.

Cosa non va

  • Il poco interesse nei confronti della sfera privata dei detective potrebbe non piacere a tutti.
  • il rischio di aver giocato tutte le proprie carte cadendo in futuro nella ripetibilità.