Recensione L'ultima porta (2004)

Un thriller fantastico noioso e soporifero, con un plot esile e una regia senza spunti, che non prova neanche ad approfondire i temi (l'eutanasia, l'accanimento terapeutico, i limiti morali della scienza) dai quali prende le mosse.

Coma profondo. In sala.

La piccola Frankie resta vittima di un incidente stradale che le procura una grave lesione al cervello, facendola precipitare in coma. Disperati, i genitori decidono di rivolgersi alla dottoressa Elizabeth Chase, ideatrice di una controversa terapia a base di stimolazioni sensoriali: attraverso un "bombardamento" di immagini, suoni e piccole stimolazioni elettriche, il paziente viene indotto ad uscire dallo stato di coma. Nel frattempo il fratello di Frankie, Harry, devastato dal senso di colpa per non aver protetto la sorella, è tormentato da visioni della ragazzina che sembra invocare il suo aiuto. Proprio Harry giocherà un ruolo fondamentale nel tentativo di riportare Frankie tra i vivi.

Lanciato da un trailer fuorviante (che lo presenta come uno dei tanti epigoni de Il sesto senso, mentre in realtà il film di Shyamalan è, tematicamente e stilisticamente, lontanissimo), questo L'ultima porta è un thriller fantastico datato 2004, che sfrutta temi d'attualità (l'accanimento terapeutico, l'eutanasia, i confini tra scienza e morale) per proporre l'ennesima vicenda sovrannaturale incentrata sulla zona grigia tra la vita e la morte, e su ciò che in essa sarebbe contenuto. "Risaputo" e "scontato" sono due degli aggettivi che vengono in mente guardando questo film, che non solo non abbozza nemmeno un minimo di riflessione sulle tematiche alla sua base, ma elimina da subito qualsiasi problematicità del racconto, qualsiasi potenziale "zona d'ombra" sui suoi protagonisti (specie sul personaggio della dottoressa). La narrazione è portata avanti in modo stanco e pieno di cliches, quel minimo di complessità che la sceneggiatura sembra promettere nei primi minuti viene immediatamente cassato, e la vicenda si riduce infine a una traccia (perché questo è ciò che sembra rimanere) di un'esilità sconcertante, banale nelle premesse e piatta nella realizzazione.

Il regista Graham Theakston viene dalla televisione, e dire che la sua (anonima) regia tradisce le sue origini significherebbe offendere un mezzo espressivo potenzialmente valido quanto (e in alcuni casi più) del cinema stesso. Una regia scolastica e priva di qualsivoglia guizzo, persino soporifera nella sua incapacità di trasmettere tensione, che manca proprio in quello che il film dovrebbe essere chiamato a fare, ovvero (principalmente) intrattenere. Il film si trascina stancamente, e con una prevedibilità nell'intreccio a cui è difficile credere se non la si tocca con mano, fino a un finale inopinatamente immerso nella melassa, ma in fondo in linea con tutto ciò che l'ha preceduto. Non si salvano le svogliate interpretazioni di Andy Garcia e Angela Bassett, e alla fine il coma profondo è quello dello spettatore, messo KO dalla visione di una pellicola di rara inutilità. Urge una terapia d'urto a base di cinema, e in questo periodo, ringraziando il cielo, non è difficile trovarne di valido. Risultati garantiti e, come sempre, controindicazioni zero.

Movieplayer.it

2.0/5