In una nuova ondata e "genere" di documentari musicali che utilizzano la musica per parlare di altro (come la salute mentale o la maternità, ad esempio) c'è un film che fa un passo indietro e torna in realtà alla celebrazione della band al centro. Lo spiegheremo nella recensione di Coldplay - Music Of The Spheres: Live at River Plate, dopo il successo da record del concerto sold out trasmesso in diretta dall'Argentina nelle sale di tutto il mondo lo scorso ottobre in ben 81 Paesi e che ora arriva al cinema, in una versione rimontata e definitiva, come evento speciale solo il 19, 20, 21 aprile con Nexo Digital.
Celebrare il ritorno post-pandemia
Questo nuovo appuntamento al cinema con i Coldplay racchiude una sorta di Best Of montato ad arte, con il meglio delle tappe del Music Of The Spheres World Tour, registrato in diretta alla fine dello scorso anno durante le dieci serate sold out allo stadio River Plate di Buenos Aires. Uno stadio enorme, gigantesco che ha provato a racchiudere tutto l'amore dei fan che la band britannica si porta dietro oramai da molto tempo. Sono passati 23 anni infatti dall'uscita di Parachute, il loro album d'esordio, ed è appagante vedere quanto affetto le persone siano pronte a dare al quartetto composto da Chris Martin (voce, pianoforte, chitarra acustica), Jonny Buckland (chitarra elettrica), Guy Berryman (basso) e Will Champion(batteria). Durante le oltre due ore di film (che un po' si sentono a dirla tutta), Chris Martin ha voluto parlare continuamente in modo bilingue per tutto il tempo per celebrare e ringraziare chi li ospitava. C'è grande cuore nelle parole del cantautore, così come nei sorrisi, negli abbracci e negli sguardi complici che si scambia coi membri della band durante le varie esibizioni. Performance che alzano tantissimo l'asticella dello show offerto al pubblico pagante - e a quello di tutto il mondo, dato che sapevano di essere registrati: non mancano infatti corse tra il pubblico, coinvolgimento vocale attraverso i braccialetti LED senza device, giochi di luci, effetti laser, fino a (letteralmente) sparare dei fuochi d'artificio.
Riabbracciare l'umanità dei concerti
C'è una chiara volontà di riabbracciare l'umanità di eventi come questo, soprattutto dopo due anni e mezzo di pandemia, che Chris Martin e gli altri provano ad ottenere chiedendo al pubblico di non utilizzare per nulla i device durante una canzone (A Sky Full Of Stars, simbolicamente) o ancora di cantarne un'altra gli uni rivolti agli altri (e non tutti verso il palco) lungo lo stadio. Quel bisogno umano lo si percepisce anche durante una delle ultime esibizioni, Paradise sul palchetto nel mezzo dell'arena, facendo cantare tutti (o quasi) i membri della band, molto vicini tra loro.
La stessa scaletta scelta e montata esprime questo intento, coinvolgendo anche alcuni artisti amici della band, come H.E.R. (che abbiamo visto di recente nella rivisitazione celebrativa de La Bella e la Bestia) e Jin dei BTS, gruppo k-pop sudcoreano, con cui hanno iniziato una collaborazione pochi anni fa. Da lì è nata una delle canzoni più di successo della band, My Universe, ed una delle performance più coinvolgenti durante il tour e il film, My Astronaut, che debuttava a livello mondiale proprio in quest'occasione per augurare buona fortuna al ragazzo, poiché aveva deciso di arruolarsi nell'esercito coreano proprio in quei giorni ed era volato al concerto apposta. Mai coinvolgenti tanto quanto i grandi classici della band, ovviamente, perché iscritti storicamente nel firmamento musicale: da Fix You a The Scientist, da Viva la Vida a Every Teardrop is a Waterfall o ancora Something Just Like This, fino alla più recente Higher Power.
(Auto)celebrazione spettacolare
Capiamo che essendo Coldplay - Music of the Spheres: Live at River Plate il montaggio di un concerto dal vivo non c'era molto margine di approfondimento, ma questo non è totalmente vero perché quei pochi contributi della band vengono relegati ai titoli di coda. Peccato, perché sarebbe stato molto più interessante intervallarli alle esibizioni. Qui infatti cade un po' il palco costruito ad arte dal regista Paul Dugdale, vincitore di un BAFTA e nominato ai Grammy - che già aveva seguito altri artisti in tour, non solo gli stessi Coldplay nel 2012 ma anche Taylor Swift, Shawn Mendes e i Rolling Stones - e dal direttore creativo Phil Harvey, storicamente considerato il quinto membro della band. Si tratta alla fine di un'(auto)celebrazione dei Coldplay, per quanto coinvolgente e meritata, piuttosto che un raccontare il significato di quel preciso tour e concerto per loro.
Del resto l'album Music Of The Spheres è già certificato oro in Italia e ha venduto oltre 1,7 milioni di copie in tutto il mondo. Molto viene lasciato tra le righe alle parole di Chris sul palco che intervallano le performance e gli permettono di riprendere fiato. La regia, un mix di droni e tecniche di ripresa a 360°, e il montaggio, psichedelico, iper-dinamico, coloratissimo al neon, totalmente immersivo in giro per lo stadio con audio remixato e rimasterizzato per carpire al massimo l'effetto surround delle canzoni, è un gran bel regalo per i fan del gruppo ma alla fine è proprio lì che si ferma, essendo pensato per la sala.
Conclusioni
Ciò che abbiamo sottolineato nella recensione di Coldplay - Music Of The Spheres: Live at River Plate è che il miglior pregio e allo stesso tempo il peggior difetto del documentario musicale è l’essersi mantenuti sulla spettacolarità dell’evento e meno sull’approfondimento del dietro le quinte e dei pensieri della band, lasciati alle parole di Chris Martin sul palco. A livello visivo rimane però uno spettacolo mozzafiato che farà girare la testa al cinema… anche se sarebbe stato meglio a quel punto essere lì dal vivo per un vero e proprio concerto.
Perché ci piace
- Il messaggio tra le righe di riabbracciare l’umanità del mondo dopo la pandemia e in tempo di guerra e crisi economica.
- I brani scelti, tra vecchie glorie e nuove hit, guest star musicali comprese.
- La regia e il montaggio ad arte ci fanno sentire come se fossimo in quello stadio di Buenos Aires...
Cosa non va
- ... però non siamo lì per davvero e quello in fondo sarebbe stato la vera esperienza.
- La durata si fa un po’ sentire soprattutto nella parte centrale.
- Gli approfondimenti dietro le quinte con le testimonianze della band vengono relegati ai titoli di coda, lasciando il documentario come (auto)celebrazione superficiale e poco più.