C'è un Gabriele Muccino da esportazione che ha provato a far fortuna all'estero. I produttori americani, allettati dalla perizia tecnica e dalla vivacità narrativa, hanno provato a incasellare il regista romano nella categoria 'mestierante di qualità' affidandogli sceneggiature sempre più impersonali e lui ha deciso di fare dietro front tornando in Italia a fare il cinema che è più nelle sue corde. D'altronde la vis mucciniana affonda nella narrazione di quella che è l'essenza stessa dell'italianità: la famiglia. L'unità di misura dell'italica nazione è il nucleo familiare, che è anche alla base del cinema di Gabriele Muccino, solo che in quest'ultimo caso si discosta dall'immagine in stile Mulino Bianco che va per la maggiore sui media.
Nevrosi è la parola d'ordine nella famiglia mucciniana. Niente va come deve andare, i rapporti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra parenti e perfino tra amici sono sempre tesi, pronti a implodere alla prima occasione. Per lo più si tratta di faccende di corna o problemi economici, ma i tinelli degli appartamenti altoborghesi dei quartieri bene di Roma sono spesso e volentieri testimoni muti di scene madri in cui la miccia si accende per un nonnulla. Questa propensione per il dramma che Gabriele Muccino sembra prediligere gli deriva dall'amore per coloro che ha eletto suoi padri artistici, Ettore Scola e Dino Risi in primis, o magari da una componente autobiografica, visto il tumultuoso divorzio e i dissidi col fratello Silvio che hanno tenuto banco sulle pagine di gossip. Fatto sta che il suo cinema parla soprattutto d'amore, ma le relazioni sono sempre tormentate. Cerchiamo di capire il perché.
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Il dramma della gelosia
É il 1998 quando il trentunenne Gabriele Muccino si lascia alle spalle la lunga gavetta nei documentari e spot pubblicitari ed esordisce nel lungometraggio con Ecco Fatto. Il regista elegge il personaggio di Matteo, interpretato da Giorgio Pasotti, a primo di una lunga serie di alter ego. Matteo, liceale ripetente, vince alla lotteria mettendosi insieme a Margherita (Barbora Bobulova), bella, emancipata, più grande di qualche anno e con un proprio appartamento. La vita in comune, però, non soddisfa il ragazzo che, roso dal tarlo della gelosia, trasforma la vita di coppia in un inferno tra pedinamenti, tamponamenti fortuiti, urla, scenate, e perfino allucinazioni in stile Shining. La vita di coppia, nella mente di Muccino, tira fuori il peggio dalle persone e l'analisi di quanto accaduto, in retrospettiva, si trasforma in un'occasione pubblica per sciorinare tutti i luoghi comuni possibili e immaginabili, dalle generalizzazioni sul diverso approccio al tradimento di uomini e donne a chicche come "far bene l'amore fa bene all'amore", perla di saggezza offerta da un prete ciarliero interpretato da Blas Roca-Rey.
Qualche anno dopo, Gabriele Muccino riprenderà il discorso, ampliandolo, in quello che ancora oggi è il suo film più rappresentativo, L'ultimo bacio. Per essere certo di abbracciare tutte le casistiche possibili, il regista riunisce un nutrito gruppo di attori e attrici di età varia mettendo a confronto tre diverse generazioni. Spaccato sociale? Non esattamente. Denominatore comune, l'estrazione borghese dei personaggi, che hanno problemi di corna e insoddisfazione, ma non di soldi. Quando i tradimenti, veri o presunti, vengono a galla danno mano libera al regista per costruire le sue scene madri tutte urla e nevrosi, complice l'immedesimazione di Giovanna Mezzogiorno, ben più velenosa e isterica del pacioso Stefano Accorsi. Ma il problema dell'infedeltà colpisce tutte le coppie a tutte le età, vedi i genitori di Giulia (Mezzogiorno), anche loro in crisi per via di una sbandata della madre. L'importante è che alla fine tutto torni a posto perché, in un ideala ordine moralistico, il decoro vale più della felicità. Concetto ribadito ulteriormente in Baciami ancora, sequel che arriva dopo 9 anni in cui, dopo una lunga serie di tradimenti reciproci e relazioni altre, la coppia composta da Carlo e Giulia si ricomporrà senza una reale maturazione da parte loro né degli altri personaggi del film.
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La sindrome di Peter Pan
Dai liceali pluri-ripetenti di Ecco fatto ai trentenni fragili e immaturi de L'ultimo bacio, fino ai coniugi di Ricordati di me, paralizzati dalle frustrazioni legate alle ambizioni mai realizzate, i personaggi di Muccino faticano a farsi carico delle responsabilità. La società impone di farsi una famiglia? E loro la mettono su, ma basta un fugace incontro con una ex fiamma di gioventù al supermercato per rimettere tutto in discussione. Questa sindrome di Peter Pan sembra colpire soprattutto gli uomini, vedasi il quintetto di amici de L'ultimo bacio. Carlo (Stefano Accorsi) manda in crisi il rapporto con la fidanzata incinta per una scappatella non con una coetanea, bensì con una studentessa che cita i testi studiati a scuola come argomento di conversazione, eppure Carlo si sente maggiormente compreso da lei che dalla fidanzata Giulia. All'opposto, Matteo di Ecco fatto si sente inadeguato a stare con una donna più grande, già inserita nel mondo del lavoro, mentre lui colleziona bocciature sui banchi di scuola. Non va certo meglio agli amici di Carlo: c'è il rasta amante della cannabis (Marco Cocci) che passa da un'avventura all'altra e regala perle come "È la fedeltà la vera utopia" e c'è quello che lo mette in guardia avvisandolo che la nascita di un figlio ti fa invecchiare di colpo. Alla fine gli amici di Carlo decideranno di lasciarsi alle spalle le responsabilità e partire per l'Africa.
Frustrazione e immaturità sono alla base della crisi familiare che esplode in Ricordati di me. Carlo (Fabrizio Bentivoglio) e Giulia (Laura Morante) - nomi che tornano costantemente a indicare (come se ce ne fosse bisogno) il fil rouge che unisce le opere di Gabriele Muccino - sono una coppia in apparenza solida, ma non si perdonano di non aver realizzati i propri sogni di gioventù, lui di fare lo scrittore, lei l'attrice. I due hanno riversato le proprie frustrazioni sui figli, l'uno timido e insicuro, incapace di dichiararsi alla ragazza per cui ha una cotta, lei pronta a tutto, anche a passare per una facile, pur di lavorare in televisione. Il castello di carte in cui vivono crollerà - guarda caso - quando Carlo si imbatterà in una vecchia fiamma. Anche il ritorno costante del passato è un modo per simboleggiare l'incapacità di vivere nel presente e di proiettarsi nel futuro di personaggi che, nel loro inconscio, si rifiutano di crescere.
Generazioni a confronto
Pellicole come L'ultimo bacio e Ricordati di me mettono in scena più nuclei familiari e diverse generazioni. Nell'ultimo Muccino di A casa tutti bene e Gli anni più belli, questa tendenza si va ampliando ulteriormente. Prendiamo A casa tutti bene dove, per amplificare la drammaticità delle relazioni tra personaggi, Gabriele Muccino adotta unità di luogo, tempo e azione. L'occasione sono le nozze d'oro di Pietro (Ivano Marescotti) e Alba (Stefania Sandrelli) che chiamano a raccolta figli e nipoti nella loro bella villa sull'Isola di Ischia. All'inizio del film la voce di Stefano Accorsi ci ricorda che "la famiglia è il luogo in cui nasciamo, cresciamo, dal quale scappiamo e poi inevitabilmente torniamo". Un'improvvisa mareggiata rende impossibile fuggire, almeno per una notte, dall'isola. La permanenza forzata di questa famiglia allargata fatta di genitori e figli, ex, amanti e cugini costretti a passare 24 ore assieme porterà a galla verità nascoste e rivelazioni scioccanti, darà luogo a confronti drammatici, ma anche a gesti d'affetto.
Naturalmente anche stavolta non manca il leitmotiv dell'estrazione sociale altoborghese. Basta dare un'occhiata alla splendida magione usata come dimora di Alba e Pietro, Villa Gancia a Forio, gioiello dell'architettura ischitana, per dar l'idea dello status sociale della famiglia ritratta da Muccino. Idea già anticipata nel finale de L'ultimo bacio, dove vediamo lo stesso Carlo, che di lavoro fa il pubblicitario, vivere in una bella villa con moglie, figlia e cucciolo, nella miglior tradizione di una perfetta famiglia italiana benestante, come ribadisce Stefano Accorsi nel celebre monologo: "Decidi che la fase dell'eterna adolescenza è finita e che è ora di crescere e crescerai. E allora tutto cambia e questa volta cambierà. Avrai una casa più grande, la piscina, il garage col posto auto, il prato sempre curato, il portico fiorito e le porte smaltate, il cane che chiamerai Marx e la barca che chiamerai Giulia, avrai la salute assicurata, la vita assicurata, il frigorifero sempre pieno per non sentirti povero, un tappeto etnico per continuare a sentirti giovane e finestre da cui entra sempre il sole... e allora avrai la tua famiglia felice i tuoi bambini in salute e lei... avrai lei... che ti ricorda tutte le cose belle che avete avuto... non è questo che avevi sempre sognato?"
In effetti, l'unica nota stonata in A casa tutti bene è il personaggio di Gianmarco Tognazzi, lo scapestrato Riccardo, la pecora nera perennemente indebitata e con un figlio in arrivo che si presenta alla riunione di famiglia per avere un prestito. Sono lui e la compagna Luana (Giulia Michelini) la nota stonata agli occhi dei parenti, ma non del regista perché alla fine, tra scenate, corna, menzogne e minori insidiati, sono gli unici ad amarsi e a sostenersi sul serio.