È un atto d'amore per il cinema italiano il film con cui Walter Veltroni decide, dopo migliaia di film visti e la regia di diversi documentari, di fare il grande salto e dirigere il suo primo lungometraggio di finzione, celebrativo fin dal titolo: C'è tempo, come quello dell'omonima canzone di Ivano Fossati.
L'ex sindaco di Roma lo definisce un piccolo film, fatto di buoni sentimenti, un racconto di formazione che, come leggerete in questa recensione di C'è tempo, si consumerà per le strade della provincia italiana a bordo di una Volkswagen cabriolet. Peccato che le buone premesse si perdano in uno sviluppo narrativo edulcorato e in una carrellata di omaggi, circa cinquanta citazioni cinematografiche - forse troppe - disseminate qua e là, che alla fine fagocitano l'intera narrazione togliendole verità e naturalezza.
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Una trama da road movie tra omaggio al cinema e siparietti
Lo sviluppo della trama di C'è tempo fa pensare al road movie. Stefano (Stefano Fresi) è un quarantenne precario che vive a Viganella, paesino di duecentosette anime, e che per sbarcare il lunario fa un doppio lavoro: osservatore di arcobaleni e responsabile dello specchio che, riflettendo la luce del sole, illumina il villaggio, altrimenti al buio nei mesi invernali (come succede realmente) a causa delle montagne incombenti. Alla morte del padre, mai conosciuto, scopre di avere un fratellastro, Giovanni (Giovanni Fuoco), un tredicenne "saputello, juventino, ricco e moralista", fin troppo adulto per la sua età. Nominato suo tutore, Stefano parte per Roma senza la minima intenzione di prendersene cura, ma allettato dall'idea di ricevere in cambio una generosa somma di denaro. Insieme, a bordo di una Volkswagen decapottabile, affronteranno un viaggio che, una fermata dopo l'altra, nell'Italia più lenta e periferica, ne appianerà le differenze fino a farli diventare davvero fratelli. Determinante sarà l'incontro con la cantante Simona (Simona Molinari), in tour con sua figlia (Francesca Zezza).
A fare da contraltare al viaggio dell'improbabile coppia, una fotografia dai colori pastello, un tempo in cui tutto rallenta, una colonna sonora che spazia dalla più recente musica pop de Lo stato sociale che apre il piano sequenza iniziale al sapore vintage di Stella stai di Umberto Tozzi, e una sfilza di riferimenti cinematografici ingombranti.
Il problema principale è infatti l'ossessione per le citazioni colte, evocata ad ogni scena: dallo schermo su cui campeggia il volto di Antoine Doinel de I 400 colpi, alla padella de La Grande Guerra, la pistola rossa di Dillinger è morto, la Corte degli Angeli di Novecento e ancora L'armata Brancaleone, Scola e Mastroianni. Un lavorio estenuante che corre in parallelo alla narrazione culminando nel coinvolgimento di Jean-Pierre Leaud in carne e ossa.
Il film trabocca di citazioni e didascalismo, il bisogno di spiegare qualsiasi cosa soffoca lo spettatore. E non basterà la poesia di un cercatore di arcobaleni o lo sguardo di un bambino alla ricerca dell'infanzia perduta, per recuperare una dimensione emotiva completamente assente.
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I personaggi: adulti, bambini e cercatori di arcobaleni
Per fortuna a fare da collante tra situazioni frammentarie e slegate fra loro, ci sono gli interpreti: Stefano Fresi, al suo primo ruolo da protagonista, e il giovanissimo Giovanni Fuoco fanno del loro meglio per sottrarre la caratterizzazione dei personaggi all'imperante urgenza di didascalizzare tutto; il primo fa della tenerezza e dell'incanto la propria cifra stilistica, sognatore a caccia di arcobaleni, il secondo sorprende per la verità e naturalezza con cui restituisce un tredicenne serioso, amante del cinema e grande estimatore di Truffaut. I classici tipi umani inconciliabili, che alla fine del viaggio, tra un amarcord e un calcio a un Supersantos che chissà quando ripiomberà a terra, si ritroveranno ai piedi di un doppio arcobaleno.
Movieplayer.it
2.5/5