Quando si parla di cinema, sono veramente pochi gli esercizi mentali in grado di dare una soddisfazione maggiore che andare indietro nel tempo fino alla prima pellicola dei grandi autori così da poter capire come e da dove sono partiti. Vederli pieni di idee e voglia di fare, ma comunque acerbi se non, addirittura, naïf.

Non è proprio il caso di Bong Joon-ho, che al momento del suo debutto nel mondo dei lungometraggi, Cane che abbaia non morde, in proiezione come anteprima europea al Far East Film Festival 2025, era già consapevole di cosa voleva raccontare attraverso la macchina da presa. Cioè argomenti di stampo sociologico, gli stessi nei quali si laureò più o meno una decina di anni prima. Pieno di idee e voglia di fare, acerbo, ma non ingenuo.
Nel titolo in questione si possono infatti trovare già una buonissima parte del bacino argomentativo che ha sempre accompagnato il regista sudcoreano, ad oggi uno dei più celebrati dei nostri tempi. Non solo, troviamo già dei personaggi, delle metafore geografiche, dei filtri parodistici sulla realtà, dei modi usare il genere e anche qualche tecnica di ripresa (camera a mano, piani sequenza, piani stretti e la grande capacità di dare ritmo attraverso i movimenti) che rappresentano i prodomi del suo modo di pensare il linguaggio cinematografico e di adoperarlo per parlare del mondo.
Cane che abbaia non morde: alle origini del cinema di Bong

Leggenda vuole che l'ideazione di Cane che abbia non morde nacque addirittura da un episodio dell'infanzia di Bong Joon-ho, quando trovò il cadavere di un cucciolo di cane sul tetto dell'edificio dove presumibilmente abitava. La scoperta lo impressionò molto anche perché temeva che le guardie del palazzo potessero mangiarlo. Non ci è dato sapere cosa fece per evitare che ciò accadesse, ma sappiamo che ha fatto un film, quindi rimarremo su quello.
Nonostante questo traumatico ricordo, la pellicola deve però il suo titolo a Il cane delle Fiandre, un romanzo ottocentesco della scrittrice inglese Marie Louise Ramée conosciuta con lo pseudonimo di Ouida. Del racconto il regista conserva la grande portata politica, concentrandosi su come le ingiustizie del corrotto sistema lavorativo sudcoreano portino alla disgregazione morale dell'individuo, il quale potrebbe quindi anche prendersela benissimo anche con degli innocenti cuccioli solo perché abbaiano all'interno di un condominio.

Il caso è del protagonista della pellicola, che si ritrova ghettizzato per motivi economici sia dal sistema che dalla moglie, che è portatrice del loro nascituro, ma anche dell'unico stipendio della coppia. Un debole che se la prende con altri deboli, i più deboli di tutti, di cui addirittura si nutrono gli ultimi della classe, quelli che vivono negli scantinati dell'edificio-società, come senza tetto e guardiani tuttofare. Non va certo meglio se si pensa a chi debba portare giustizia, come delle segretarie mitomani che l'unica cosa che in realtà vogliono è finire sui giornali.
I film che verranno sono già qua

Bong Joon-ho realizza una commedia nerissima (la prima delle tante) per creare un teatro tra l'assurdo e il grottesco in grado di raccontare il volto nascosto della società della Corea del Sud, un volto lontano dall'immagine che il Paese tiene a dare di se stesso. Tra i punti fermi di questa impalcatura c'è la presenza di personaggi irresistibile e senza scrupoli, una riproposizione delle differenze di potere e di classe sullo schermo attraverso la geografia (il palazzo), che è alla base, per esempio, di Snowpiercer e di Parasite. Il senzatetto che vive nei "bassifondi" è, tra l'altro, quasi un antesignano di quello presente nella pellicola che ha fatto la Storia degli Oscar.
Un altro elemento riscontrabile (in forme diverse e per certi versi evolute) è la presenza dell'animale, portatore di una innocenza che l'umanità ha perduto e di cui ha smania. C'è chi non la sopporta, avendo smarrito la propria, come il wanna be professore, chi ne diventa ghiotto (come se attraverso di essi egli possa recuperarla) e chi vuole salvarli per divenire famoso. Sfruttamento o diniego, un meccanismo che ritroviamo in Okja e in un certo senso anche in The Host, anche se in quel caso il mostro era una deformazione di un rapporto tra due società, quella sudcoreana e quella statunitense.

La questione morale all'interno della società è, in fin dei conti, ciò che determina più di qualsiasi altra cosa Cane che abbaia non morde e in generale la filmografia del cineasta. Il suo pensiero è che la perdita di una bussola così fondamentale sia la causa dei mali dell'uomo. Essa è ciò che impedisce l'empatia, sfuma i ruoli e crea le divisioni (come ci dicono Memorie di un assassino e Madre) attraverso un lavoro invisibile, ma così presente da divenire sovrapponibile alla società stessa. Capite bene che se in un'opera prima si possono vedere già tutte queste tracce, allora il regista non potrà essere mai considerato naïf.