Chi ha visto almeno uno spettacolo della compagnia teatrale di Pippo Delbono non potrà non commuoversi alla visione di Bobò, struggente omaggio alla figura del piccolo napoletano sottratto a una vita in manicomio e divenuto una star del teatro. "Bobò resterà per sempre un bambino". Così i responsabili del manicomio di Aversa salutarono la partenza del paziente sordomuto, analfabeta e microcefalo, a cui Pippo Delbono regalò la libertà intraprendendo una feroce battaglia legale con la tutrice dopo averlo incontrato ad Aversa durante un laboratorio di teatro.

Divenuto membro fisso della compagnia teatrale di Delbono, Bobò si è trasferito a vivere con l'attore e regista, ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo, visitato paesi lontani, giocato a calcio sulle spiagge del Brasile e sulla sua lapide, oltre al suo vero nome - Vincenzo Cannavaccuolo - compare la scritta 'Cavaliere delle arti', nomina assegnatagli in Francia dove il suo stralunato talento era molto apprezzato. Perché Bobò, come ricorda Pippo Delbono, era arte pura e istintiva, era un genio inconsapevole. "Altro che Eduardo" esclama il regista, amante dei paradossi.
Bobò, l'uomo che ballava senza udire la musica
Bobò, distribuito nei cinema in autunno da Cinecittà Luce in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, è un documentario intimo intriso di una profonda malinconia. Attraverso riprese degli spettacoli teatrali e momenti privati, Pippo Delbono crea un parallelismo tra la sua esistenza e quella di Bobò, i cui cammini si sono incrociati dopo 46 anni trascorsi dal protagonista del film in manicomio. L'incontro tra i due artisti ha rappresentato un momento di svolta, per Delbono, sia personale che professionale.

La scelta di donare a Bobò la libertà ha aiutato il regista dalla depressione causata dalla scoperta di essere sieropositivo e ha dato un'impronta diversa a suoi spettacoli, dominati dalla stralunata tenerezza di questo ometto che si esprimeva con versi e singulti, ma era in grado di creare una connessione immediata col pubblico. Mimo, attore, ballerino, Bobò conteneva una vena artistica innata dentro di sé che Delbono ha solo aiutato a far emergere valorizzandone l'inclinazione con spettacoli cuciti addosso a lui. Nell'ultima fase del film la sintonia è tale che, dopo la morte di Bobò, lo stesso Delbono ha sperimentato la malattia e la perdita della capacità di camminare "senza mai smettere di ballare".
Un film sofferto e doloroso da realizzare

Pippo Delbono confeziona uno struggente omaggio a Bobò, costruito col contributo del montatore Marco Spolentini, valorizzando le analogie tra la storia del suo piccolo amico e la sua. Intimo, delicato, poetico, l'omaggio scivola via lasciando allo spettatore immagini di gioia e varietà artistica. Se la liberazione di Bobò dal manicomio di Aversa, oggi ridotto a un rudere, coincide con l'inizio di un viaggio di incredibile scoperta, accompagnato dalla voce narrante dello stesso regista, presente, ma pronta a lunghi silenzi nei momenti in cui Bobò è al centro della scena, dentro e fuori dal palco, a un certo punto il percorso si capovolge. La perdita dell'amico coincide con una nuova prigionia rappresentata anche visivamente dalle immagini di Pippo Delbono, più anziano e sofferente, che guardano l'obiettivo da dietro una grata.

Il film è frutto di una lunga gestazione. Delbono stesso ha confessato che, per cinque anni dopo la morte dell'amico, scomparso nel 2019 all'età di 82 anni per le conseguenze di una broncopolmonite, non è stato in grado neppure di guardare una sua fotografia. Ma è stata proprio un'immagine a segnare il momento della "guarigione" e a far tornare al regista la voglia di raccontare la sua perdita. "Ho deciso di fare un film per lui, non per me" ha spiegato. "Ho iniziato a poco a poco e mi sono accorto che mi dava gioia. Potevo pensare a Bobò, potevo vederlo e voglio che lo vediate anche voi".
Conclusioni
Struggente ritratto di Bobò, artista microcefalo e sordomuto che ha fatto della compagnia e della vita di Pippo Delbono da quando il regista lo ha salvato dal manicomio fino alla morte, avvenuta a 82 anni. L'elaborazione del lutto avviene attraverso un documentario intimo e lirico costruito attraverso analogie grazie a un sapiente montaggio e alla presenza della voce narrante di Delbono che si interrompe quando Bobò è al centro della scena in tutta la sua stralunata creatività.
Perché ci piace
- Il lirismo delle immagini.
- La naturale capacità di Bobò di catturare lo sguardo dello spettatore.
- L'eleganza del montaggio di Marco Spoletini.
- La scelta di Pippo Delbono di usare una voce narrante presente, ma mai invasiva.
Cosa non va
- La cupezza della parte incentrata sul presente si trasmette allo spettatore.