Credereste alla storia di un Presidente degli Stati Uniti che, a bordo del suo Air Force One, subisce un attacco terroristico nel nord della Finlandia e per sopravvivere deve affidarsi all'aiuto di un bambino di 13 anni? Probabilmente no e neanche noi. A Big Game ci si avvicina in questo modo, con uno scetticismo o forse un'incredulità di fondo poco corrompibile, ma anche possibilista e che non vuole lasciarsi limitare dall'apparente stravaganza della trama. Un incuriosito sguardo va al Samuel L. Jackson presidente degli Stati Uniti; uno più rapido e meno convinto al regista norvegese classe 1976 Jalmari Helander. A fine visione ci rendiamo conto che la faccenda non si liquida con due semplici considerazioni, ma che il film, pur non avendo le qualità per farci ricredere totalmente, ha una voglia matta e forse eccessiva di gridare la sua idea.
Il cuore e lo show
Big Game si può quasi spezzare a metà, ricavarne così due parti distinte che prima di entrare in contatto sembrano figlie di nature agli antipodi. Un bambino alle soglie dell'adolescenza pronto a dimostrare al padre e alla comunità di poter diventare un uomo nelle inospitali foreste finlandesi e un, anzi il, presidente degli Stati Uniti, l'uomo tutto d'un pezzo per eccellenza, quello che incarna il coraggio, la fermezza ed il potere. Due protagonisti, due storie, due luoghi senza nulla in comune, anzi agli opposti. Ed è proprio con gli opposti che il regista cerca di giocare per tutto il film, aiutandosi con i simbolismi: Finlandia come terra vera, schietta, dove gli uomini si fanno da soli, dove sopravvivere affidandosi solo alle proprie capacità vale di più che riuscire a gestire un discorso davanti alla Nazione. Dall'altra parte l'incarnazione degli Stati Uniti con il potere, le menzogne, l'apparire e non l'essere, il progresso. Ma si consuma un paradosso e l'anima di Big Game è tutta qui: inserire il Presidente degli Stati Uniti, l'uomo più potente del mondo, in un luogo dove quel potere non serve a nulla.
Il presidente imbranato
Il problema è che, nel tentativo di accentuare il contrasto degli opposti e di mettere in luce l'abisso che passa tra una realtà e l'altra, vengono a definirsi esagerazioni sia nei personaggi che negli aspetti di trama. Il Jackson presidente è una delle figure meno credibili mai apparse sullo schermo, almeno per il ruolo che interpreta. Ci appare inetto, inadeguato, non adatto al suo ruolo. È "disegnato" così perché in questo modo può far da contro-specchio al ragazzo che invece sa cavarsela da solo. Ma lo è davvero troppo, costringe lo spettatore a chiedersi di continuo perché sia lui l'uomo più potente del mondo.Il confronto tra le due realtà è "gonfiato", prende una piega fittizia e macchinosa. Ed infatti Big Game ha successo soltanto nella sua componente "finlandese", dove trasuda avventura invece che azione e dove i valori più puri, il costume e la cultura vengono fuori senza sforzi artificiali. Del resto il regista è nato proprio in Finlandia ed anche se non è riuscito a riversare tutte le sue origini nella pellicola, il tocco umano dato all'avventura del ragazzo è evidente.
La storia va avanti a fatica, con passaggi narrativi che definire forzati al raggiungimento dello scopo è (molto) limitante. E poi, ad eccezione del bambino protagonista, le caratterizzazioni degli altri personaggi sono quasi inesistenti, un chiaro segnale di voler creare un contorno d'intrattenimento movimentato a qualunque prezzo. Questi elementi action, spesso incarnati in esplosioni, colpi di pistola e qualche duello corpo a corpo, sono aspetti quasi disturbanti della tranquillità lappone. Ci vorrebbe più cuore. Ed infatti il libro da cui è tratta la pellicola, scritto da Dan Smith, è raccontato con la prima persona del ragazzo, che è il vero protagonista, tra pensieri ed emozioni. Questa è la sua storia, e l'uomo più potente del mondo viene a rovinarla, non il contrario.
Big game è un'avventura d'azione riuscita a metà. Suggestiva, emozionante e schietta nella sua parte finlandese, ma artificiosa, superficiale e fredda in quella americana. La figura del presidente, interpretata da un Samuel L.Jackson sotto le righe, ma poco aiutato dal personaggio scritto per lui, non aggiunge certo quel tocco in più in grado di cambiare le sorti di una pellicola. Senza l'alone degli Stati Uniti avremmo avuto forse un film meno fruibile, una trama diversa ed un ritmo poco arrembante. Ma, forse, anche un film migliore.
Movieplayer.it
2.5/5