La sua origine ebraica e il suo sguardo pungente hanno spinto la critica a paragonarlo a Woody Allen e in effetti le pellicole di Daniel Burman si distinguono per uno humor caustico, amaro, sempre presente in sottofondo alle storie che racconta. Pur senza quella raffica di battute da stand-up comedian che caratterizzano la poetica di Allen, il regista argentino si connota come una delle voci più interessanti del panorama mondiale. Per il suo ultimo lavoro, The Tenth Man, Burman è tornato a raccontare il microcosmo di Once, quartiere ebraico di Buenos Aires.
El Rey del Once (questo il titolo originale della pellicola) è un alter ego del regista, anche se lui nega ogni affiliazione autobiografica diretta. Sta di fatto, però, che Ariel (interpretato dal convincente Alan Sabbagh) è un uomo costretto a fare i conti con la propria origine e con il proprio passato quando, dopo essersi costruito una brillante carriera a New York, torna a far visita al padre che guida una fondazione di beneficenza per la comunità ebraica locale. Dopo essere sceso dall'aereo che lo ha riportato a casa, Ariel viene catapultato in un frenetico universo di impegni e responsabilità a cui non sapeva di dover far fronte. Tutta opera del padre Usher, il grande invisibile che chiama il figlio a sostituirlo adducendo come causa della sua assenza misteriosi impegni. Di fatto non vedremo mai Usher, ma pur palesandosi sono in un paio di concitate telefonate, la sua presenza nella vita di Ariel è talmente pesante da manovrare le sue scelte e spingerlo a cambiare vita per fare ritorno all'alveo familiare.
Un padre "onnipotente"
Profonda riflessione sul confronto tra ortodossia ed eterodossia, tra tradizione e modernità, The Tenth Man è una pellicola profondamente intrisa di valori ebraici. Allontanandosi dall'alveo familiare e sposando una donna non ebrea, Ariel ha accantonato i dogmi impartiti dalla famiglia, ma il padre ha intenzione di metterlo di fronte al proprio destino spingendolo a una scelta radicale. "Usher è invisibile perché è una sorta di surrogato divino" spiega Daniel Burman. "Da qui la scelta di non farlo vedere mai. E proprio come Dio, anche lui mette alla prova Ariel. Se il figlio riuscirà a passare il test del genitore, sarà pronta per lui una nuova vita. Pur non facendosi vedere, Usher è un padre molto presente e organizza una sorta di trappola per il figlio prima del suo arrivo. A me interessava costruire una figura di padre importante. Capisco che il comportamento di quest'uomo così invadente possa irritare il pubblico che si identifica col figlio, non certo col padre. Ma nell'ultima parte del mio film c'è un cambio di punto di vista, un click che ci aiuta a capire meglio le scelte di Usher. E poi Usher è un Dio imperfetto. Immaginate quanto sarebbe bello, per un credente, scoprire che anche Dio è imperfetto".
Pur avendo una moglie a casa a New York, tra le varie trappole che Usher organizza per Ariel vi è anche l'incontro con la misteriosa Eva, affascinante volontaria nella fondazione ebraica che, per buona parte del film, evita di rivolgere la parola all'uomo. "Se fosse un film cristiano Eva parlerebbe" specifica Daniel Burman non senza un pizzico di ironia. "Non è che Eva si vergogni del fatto che ha avuto un figlio senza essere sposata. Il motivo del suo silenzio sta nel fatto che lei non conosce il nome del padre di suo figlio. Per l'ebraismo un figlio senza padre è privo di identità e di eredità familiare. Eva ha il compito di dare un padre a suo figlio, ma non deve essere per forza un padre biologico. Dopo l'incontro con Ariel, Eva tornerà a parlare". Sottolineando la natura fortemente simbolica della sua opera, il regista prosegue: "Questa è una sorta di parabola. Ariel non riesce a progredire nella vita. Ha lasciato tutto per cambiare ambiente, ma adesso si rende conto che ha perso molto del passato e prova a recuperarlo. In più deve fare i conti con l'influenza paterna e rinunciare all'idea di avere un padre normale".
Once: la terra dei padri e la responsabilità dei figli
Il frenetico The Tenth Man ci porta alla scoperta del vivace quartiere argentino di Once, pieno di vita, di caos tutto sudamericano, ma anche intrido di tradizione e sacralità. "Once è un quartiere vicino a dove sono cresciuto. E' un posto in cui ho trascorso l'infanzia e che conoscono molto bene. Ancora oggi ci torno una volta al mese la domenica per vedere se la mia giovinezza è ancora lì". L'iconico Usher non fa, però, parte del passato di Burman. Il regista ammette di averlo incontrato "solo negli ultimi cinque anni. Volevo fare un viaggio con un gruppo di ortodossi per visitare le tombe ebraiche in Polonia, Russia e Ucraina e per essere accolto dovevo vivere come ortodosso per una settimana. Era Usher a dover decidere se avrei potuto partecipare perciò ho avuto un colloquio di un'ora con lui in cui ha parlato pochissimo".
Oltre al legame con Woody Allen, parlando di modelli che lo hanno ispirato Daniel Burman cita Truffaut, Bergman, Fellini, Altman e i fratelli Coen. "A Serious Man è un'opera che mi ha colpito molto. In qualche modo ci sono delle connessioni col mio film". Pensando alla possibilità di girare fuori dall'Argentina il regista ammette che gli piacerebbe molto: "Sarebbe meraviglioso girare un film in Spagna, in Brasile o negli Stati Uniti, ma non ho ancora trovato le persone giuste con cui collaborare. Mi piacerebbe anche vivere a Malibù, ma la vita è troppo breve e gran parte del tempo la passo a occuparmi dei miei figli, a portarli a scuola o dal dottore".