Il biopic musicale è un genere particolarmente amato. Eppure, è anche un genere pericolosissimo, se non adiacente all'artista che viene raccontato. Pericoloso, perché spesso si scontra con la storia reale che, certamente, non può e non deve subire revisionismi a favore di sceneggiatura. La lista di biopic che stonano è quindi effettivamente lunga. Non andremo a citarli tutti (qualcuno ha detto Bohemian Rhapsody?), ma è chiaro che raccontare una leggenda, per di più defunta, è una sfida alquanto delicata, e non tanto per il giudizio dei fan, bensì per il sacrosanto rispetto verso l'eredità artistica che ne consegue. Per questo, in un giro di jazz e di soul, tra Camden Town e l'infinito, il profilo storto e irraggiungibile di Amy Winehouse finisce per essere addrizzato e banalizzato da un film biografico che, lo scriviamo in apertura di recensione, non riesce mai ad essere all'altezza del mito, tanto divino quanto terribilmente terreno.
Ecco allora Back to Black, scritto da Matt Greenhalgh e diretto da Sam Taylor-Johnson, che la musica (britannica) l'aveva già maneggiata nel suo film d'esordio, Nowhere Boy, incentrato su un giovane John Lennon. In fondo, un film biografico, pur riverbero dell'autore che lo mette in scena, deve in qualche modo riflettere lo spirito della figura protagonista (come in Elvis di Baz Luhrmann?), e quando manca tale comunicazione, scatta quel cortocircuito che sposta l'emotività e la riconoscibilità verso la più banale delle didascalie, asciugando ogni metrica musicale e ogni metrica umana, per riassumere il tormento e l'amore in due ore che ammiccano più ad una favola tragica piuttosto che ad una straziante e drammatica storia vera che, di fiabesco, non ha nulla. Anzi.
Back to Black: quando Marisa Abela diventa Amy Winehouse
Va detto che Back to Black non mira a coprire tutti e ventisette anni di vita di Amy Winehouse, focalizzandosi principalmente sulla sua ascesa discografica, sulla relazione tossica con il marito Blake Fielder-Civil (interpretato da Jack O'Connell, ma ci torneremo), sull'incisione dell'album capolavoro Back to Black (riassunto in appena un paio di scene) e culminando alla fine con la vittoria ai Grammy. Un frullatore di situazioni, di momenti, di istantanee che, però, non elaborano i confini dell'artista, bensì la riassumono per postulati e per movenze, dimenticandone il corpo e l'anima (per citare Body and Soul, cantata in featuring insieme a Tony Bennett, che per lei ha sempre riservato parole dolcissime).
A proposito di corpo, in un biopic musicale è primario il lavoro sul casting (vedi alla voce Taron Egerton per Rocketman) e, in Back to Black, troviamo Marisa Abela nel ruolo di Amy. Sam Taylor-Johnson non la fa quasi mai uscire di scena, ne coglie le ombre, lavora sui primi piani ma, tra movenze e schemi, la performance (per restare in tema) ricopia senza interpretare, al netto dell'ottimo lavoro svolto da Abela sulle complicatissime sfumature vocali, tanto vintage quanto moderne - perché questo era Amy Winehouse: il suo genio irregolare era perfetto e inadatto all'epoca che ha vissuto, bruciando ardentemente dietro una fragilità affogata dall'alcool e stordita dalla droga, e consumata da una salvezza forse mai del tutto voluta da chi le stava accanto.
Il ronzio dei paparazzi per un abbozzato e sfocato biopic
E poi? E poi c'è la formalità in Back to Black, che però tiene a distanza il cuore, i nervi, la voce, la rabbia. Se si insiste sulla mimica, sui colori, sul trucco sbavato, nel puzzle cinematografico di Amy Winehouse mancano i pezzi, e se mancano ecco che la sceneggiatura, invece di affidarsi all'istintività e ai graffi del jazz, di cui Amy ne era la costola e la modernità, finisce per circoscrivere il più possibile l'ambiente adiacente. L'apparato umano di Back to Black, infatti, sembra ignifugo ai demoni dell'artista, tanto da semplificare le dipendenze e i tormenti: la figura di Blake, che ha ispirato l'oscurità contenuta nell'album Back to Black, sembra quasi la vittima, nonostante sia entrato nella vita di Amy portando in essa una tempesta da cui la ragazza non riuscirà più ad uscire; e se la madre, interpretata da Juliet Cowan, è quasi un orpello da mostrare all'inizio e alla fine, è poi papà Mitch (Eddi Marsan), che nel film appare quasi come il riferimento emotivo della cantante, l'altro punto dolente nella rappresentazione: pesantemente criticato dall'opinione pubblica (per non aver fatto abbastanza verso sua figlia), quel tassista con il sogno irrisolto per la musica faceva a tutti gli effetti parte dell'enorme macchina economica che ronzava attorno ad Amy (come ronzavano attorno a lei i paparazzi, vera e propria piaga britannica, ossessionati dagli scandali a misura tabloid).
Una macchina che non si sarebbe dovuta mai fermare come nel caso dell'atroce concerto a Belgrado, nel 2011, ad un mese dalla scomparsa: Amy, fuori da ogni condizione accettabile, trascinata sul palco per un'esibizione straziante e crudele. Troppi santi e pochi diavoli, allora, in un'opera che lascia la più amara delle sensazioni: la grandezza scapigliata, romantica e sbafata di Amy Winehouse avrebbe meritato un biopic meno abbozzato e più personale. A tal proposito, vi lasciamo ad un rimando: recuperate il documentario Amy di Asif Kapadia, dove viene eretto il perfetto profilo di una ragazza londinese troppo sensibile per un mondo spietato che non l'ha mai davvero capita. E che, a quanto pare, continua a non volerla capire.
Conclusioni
Biopic troppo didascalico e troppo superficiale quello circoscritto da Sam Taylor-Johnson e dedicato al mito geniale ma tragico di Amy Winehouse. Back to Black, infatti, non riesce ad andare oltre un mix di situazioni, poco omogenee e poco armoniose, nonché poco adiacenti alla verità storica che ha segnato la vita di un'artista irripetibile.
Perché ci piace
- Il lavoro sulla voce di Marisa Abela.
Cosa non va
- ... che però sembra più imitare che interpretare.
- La superficialità con cui viene affrontato il tormento della protagonista.
- I personaggi adiacenti poco attinenti con la realtà.
- Didascalico e canonico.