Applicare le regole del thriller psicologico, ad un dramma intimo che esplora gli anfratti - tra sinergia ed allegoria - della depressione post parto. Questo dietro Baby Ruby, l'esordio di Bess Wohl, regista esordiente dal background teatrale (ma ha all'attivo anche la sceneggiatura di L'unica del 2018, oltre a varie comparsate in diversi episodi di serie tv).
Dopo Broadway e l'Off-Broadway (il suo Grand Horizons ha ricevuto una nomination ai Tony Awards), ecco il set di un film volutamente asfissiante e marcatamente oscuro, totalmente ignorato dalla distribuzione italiana dopo la presentazione al Toronto Film Festival del 2022. Ignorato almeno fino all'arrivo su Netflix che, ovviamente, ridà luce ad un'opera interessante nella concezione, ma probabilmente fin troppo ristretta nella sua evoluzione e nella sua evocazione. Certo è, che se la fattura conta, allora quello di Wohl è un debutto registico interessante, pur incline ad una sommessa ripetitività che, alla lunga, tende ad ammosciare la chiara potenza immaginifica.
Baby Ruby: il lato oscuro della maternità
A scrivere Baby Ruby la stessa Bess Wohl, che ci porta nella vita di Jo (Noémie Merlant). Fa l'influencer (e chiunque faccia l'influencer o pseudo tale, dovrebbe dare un occhio al film: potrebbe capire molte cose), ha un labrador, una bella casa nel verde, un buon compagno, Spencer (Kit Harington, forse poco sfruttato), e una figlia in arrivo, Ruby. La piccola, appena nata, sconvolgerà però la vita di Jo. Diventerà oppressiva, aggressiva, diffidente. Inizierà a scollegarsi dalla realtà, tra visioni, sogni ed incubi dai toni inquieti, quasi orrorifici. Jo si trasforma, e trasforma l'amore che ha per Ruby in qualcosa di sconnesso, e via via sempre più pericoloso.
Spazio, suggestioni e un ritmo (a volte) ripetitivo
Non c'è dubbio che Bess Wohl conosca bene i paradigmi dello spazio (in questo caso una grande casa, piena di spigoli, piena di inconsiderati spunti letali), applicando al meglio la logica del palcoscenico a quella del cinema. Una trovata che funziona, nella suggestione di indagare i lati neri della maternità, sfruttando l'allegoria di una personalità che si sdoppia, allungandosi fino all'inconscio, all'imperturbabile. Se un figlio o una figlia sono l'estensione diretta di una madre, la figura di Jo in Baby Ruby diventerà in qualche modo l'ombra di sé; un'ombra a cui la regista ammicca, e che solo nel finale darà ad essa voce e corpo, per un'ideale ri-collegamento, metaforico e rivelatore.
La suggestione scenica, allora, è di certo ben appuntita, anche grazie al supporto interpretativo di Noémie Merlant, straordinaria nel trasformarsi in quella che diventerà una maschera di follia, senza però mai perdere le peculiarità materne. Dunque, la depressione post-partum prende corpo e forma secondo lo sguardo di Bess Wohl, nonostante ci sia una narrazione a tratti bloccata nella ripetizione degli eventi: il turbine che inghiotte Jo viene tradotto dalla regista in una sequela di situazioni che non sempre alzano la tensione, né sono effettivamente così trascinanti nell'originalità e nella scrittura. Infine, menzione speciale alla colonna sonora di Erik Fredlander, compositore e violoncellista newyorkese che, grazie ai suoi inquieti archi, riesce a suggerire al meglio l'emotività simbolicamente incrinata, in uno stridente correlato con l'incessante pianto della neonata.
Conclusioni
Bess Wohl, dopo numerosi lavori a Broadway, debutta alla regia cinematografica con Baby Ruby, dando corpo e voce alla depressione post-partum. Suggestioni, visioni, evocazioni e allegorie per un'opera oscura e simbolica, ma forse troppo ripetitiva nello schema. Protagonista un'efficace Noémie Merlant, così come è efficace la colonna sonora del violinista Erik Fredlander.
Perché ci piace
- La bravura di Noémie Merlant.
- La suggestione.
- Dare corpo alla depressione post-partum.
- La colonna sonora.
Cosa non va
- Il modus sembra ripetersi: forse c'è troppa ripetitività.
- Kit Harington quasi marginale.