Recensione Post Mortem (2010)

Con uno stile minimalista fatto di pochi dialoghi, di colori freddi, di lunghi silenzi e stranianti inquadrature a camera fissa su cadaveri accatastati nonché sui volti scavati e sofferenti dei protagonisti, Larraìn conduce lo spettatore in un tunnel cupo e asfissiante, restituendo attraverso dettagli, scenografie, costumi essenziali e numerosi momenti ansiogeni, l'incubo di un paese immerso nella solitudine, alienato e straziato dall'interno.

Autopsia di un paese

Santiago del Cile, 1973. Mario è un uomo solo, triste, consumato da un lavoro straniante e ripetitivo presso l'obitorio come redattore di relazioni autoptiche medico legali. Nei giorni che precedono il colpo di stato e la strage di civili che ne seguirà, Mario trova la forza di dichiararsi alla sua vicina di casa Nancy, una depressa ballerina di can can del Bim Bam Bum, un celebre locale di cabaret della città, che sembra ricambiare il suo interesse. Sarà proprio la loro ambigua relazione, sullo sfondo di un paese in subbuglio per l'imminente colpo di stato militare nei confronti del governo di Allende, a far capire a Mario il vero significato della sofferenza e del tradimento, quello di ideali e quello dei sentimenti.


Dopo il meritato successo del suo film d'esordio Tony Manero, premiato in moltissimi festival internazionali, il trentaquattrenne regista cileno Pablo Larraìn torna a parlare del suo paese nello struggente Post Mortem, un film altamente drammatico che racconta uno dei momenti più bui della storia del Cile attraverso lo sguardo smarrito e spento del protagonista, un uomo che appare più morto dei cadaveri di cui si occupa in qualità di redattore autoptico, una sorta di 'funzionario' della morte, come lui stesso ama definirsi. Il suo sogno segreto di conquistare l'eterea e smagrita reginetta del cabaret è potente come il sogno di conquista di un intero paese nei confronti di uno stato sociale democratico e di un modello politico socialista e liberale.
Sovrapponendo tre differenti registri cinematografici, quello testimoniale, storico e narrativo, Larraìn riesce con crudele realismo a mettere in scena la catarsi di un uomo inutile, solo al mondo, e al contempo quella di un popolo, ma soprattutto la 'sua' catarsi interiore, sviscerando in questo racconto tutto quello che durante la sua vita ha sentito, letto, visto in televisione e immaginato sul momento forse più importante della storia del suo Paese.

Tutto è nato dopo aver letto un articolo sul giornale che parlava di un uomo, Mario Cornejo appunto, che raccontava di aver assistito, proprio nel giorno del golpe militare, all'autopsia sul corpo del Presidente Salvador Allende. Da qui l'idea di partire dalla storia di un uomo qualunque, che di lavoro fa il trascrittore di autopsie, per arrivare a parlare di un giorno tragico per il popolo cileno in cui paradossalmente scompare l'uomo più importante della storia del Paese. Interrogandosi su quali potessero essere le circostanze che avevano consentito all'uomo di partecipare tanto attivamente alla storia del Cile senza essere visto, Larraìn ha iniziato a costruire la brillante sceneggiatura che poi ha portato alla realizzazione di Post Mortem. E' proprio nella scena dell'autopsia di Salvador Allende, morto l'11 settembre del 1973, che si comprende quanto la figura del leader politico e quella di Mario Cornejo siano distanti ma in qualche modo legate. Quello steso sul letto con il cranio fracassato da un proiettile è il corpo di un uomo che per il suo popolo e per la libertà ha sacrificato tutto, compresa la vita, mentre quello che imperturbabile osserva gli eventi scorrere davanti ai suoi occhi è un uomo che se morisse non avrebbe nessuno a piangere sulla sua bara. Lo squarcio che si apre sullo sterno dei tanti corpi lividi è paragonabile a quello ancor più profondo che il regista apre sulla vita non vita di Mario.
Con uno stile minimalista fatto di pochi dialoghi, di colori freddi, di lunghi silenzi e stranianti inquadrature a camera fissa su cadaveri accatastati nonché sui volti scavati e sofferenti dei protagonisti, Larraìn conduce lo spettatore in un tunnel cupo e asfissiante, restituendo attraverso dettagli, scenografie, costumi essenziali e numerosi momenti ansiogeni, l'incubo di un paese immerso nella solitudine, alienato e straziato dall'interno. Poco può fare lo spettatore di fronte a tutto questo, l'unica cosa è abbandonarsi alle immagini e lasciarsi inghiottire dagli eventi fino alla tragica conclusione di questa straziante storia d'amore e morte.
La lunga sequenza a camera fissa che riprende Mario e Nancy seduti a tavola scoppiare senza apparente motivo in un pianto dirotto, entra nell'anima come una lama, lacera e disturba molto di più della visione dei cadaveri sparsi per le strade o nei corridoi dell'ospedale, persino dei dettagli delle stesse autopsie. Geniale a dir poco il finale scelto da Larraìn: senza sottofondo musicale e senza mai spostare la mira, la camera punta su Mario, che in preda ad un raptus di gelosia inizia ad accumulare freneticamente mobili e ferraglie davanti ad una porta chiusa che nessuno riuscirà mai più ad aprire. Dorato nascondiglio d'amore trasformato d'un tratto in ripostiglio angusto di tante tradite speranze di felicità.

Movieplayer.it

4.0/5