Auto-analisi alleniana
Il film parte con quello che lo spettatore capirà ben presto essere un inserto metacinematografico, costituito dalla proiezione delle sequenze finali della pellicola diretta da Sandy Bates, apprezzato regista comico interpretato da Woody Allen, che inorridisce i suoi produttori avendo realizzato un film inquietante e pessimista sulla falsariga delle opere di Ingmar Bergman (uno dei punti di riferimento imprescindibili del cineasta newyorchese). Come se non bastasse, Sandy si trova incastrato durante il week-end in una retrospettiva a lui dedicata, organizzata da un'importante critica cinematografica all'Hotel Stardust di Long Island. Durante questa due giorni infernale, Sandy è attorniato e travolto da figure "mostruose" e alienanti, tra cui i suoi numerosi fan, che lo assalgono con continue richieste: i produttori pretendono di decidere il finale del film, rendendolo più commerciale e ottimista; i fan gli pongono domande, chiedono attenzione, autografi, raccomandazioni per il mondo del cinema e addirittura appuntamenti sessuali; le associazioni benefiche lo pregano di partecipare ad aste e trasmissioni per raccolte fondi; anche l'amante francese Isobel (Marie-Christine Barrault) lo pone di fronte alla sua separazione dal marito e alla prospettiva di una convivenza con due figli a carico. Solo l'incontro con la violoncellista Daisy (Jessica Harper) sembra alleviare quella che, a tutti gli effetti, si delinea per Sandy come una crisi personale e artistica: "devo cambiare il mio film, la mia vita", confessa alla giovane donna, che gli rammenta involontariamente la sua tormentata ma appassionata relazione con Dorrei (una ambigua e seducente Charlotte Rampling), affascinante attrice minata, però, da insicurezze e disagi che l'hanno portata all'esaurimento nervoso.
Il piano della realtà, il piano della finzione cinematografica, relativo ai film di Sandy Bates, e la dimensione mnemonica dei ricordi vissuti con Dorrei, s'intrecciano senza soluzione di continuità in Stardust Memories, uno dei film più ambiziosi, complessi ed ermetici di Woody Allen che, rigettando l'istanza autobiografica assegnatagli dalla critica, ha comunque rappresentato sullo schermo il ripensamento che un regista compie su sé stesso, affrontando i propri demoni interiori e i propri spettri cinematografici (nell'esigenza di Sandy di girare film seri è impossibile non leggere l'evoluzione cinematografica dello stesso Allen, dai primi film spudoratamente comici alla svolta drammaturgica di Io e Annie, svolta poi confermata in Interiors e Manhattan).
E se il riferimento corre subito a 8 1/2 di Fellini, Allen non rinuncia a inserire nell'universo diegetico del film una delle opere che più lo ha ispirato, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, che Sandy e Daisy guardano insieme in una delle pause dalle proiezioni.
A quale funzione può assolvere la comicità in un mondo che non conosce altro che "umane sofferenze"? È questa la domanda fondamentale che sostiene lo scheletro narrativo del film. Se il circo mediatico e umano che ruota attorno a Sandy non fa altro che invocare la sua vena comica, e se persino gli alieni apparsi al regista durante un'allucinazione gli intimano di trovare battute più divertenti, Sandy vorrebbe, invece, affrontare le macerie e i dolori non con un sorriso, ma con un'auto-analisi tanto surreale quanto profonda. È un vero e proprio malessere esistenziale quello che scorre nelle vene di Sandy, e in generale del film, al quale si può rispondere solo con la forza dei ricordi, quelli più intensi e felici. Attimi di vita dove tutto sembra perfetto. Per il cineasta quel ricordo è il viso dell'indimenticata Dorrei, per una volta disteso e radioso, intenta a guardare l'uomo mentre è sdraiata per terra, rilassata, in un luminoso pomeriggio primaverile di New York, riscaldato dalla musica di Louis Armstrong in sottofondo. Stardust Memories non è certamente il film più compiuto e riuscito di Woody Allen, dove a mancare è soprattutto quell'ironica leggerezza che solitamente connota la sua opera, ma rimane uno dei film preferiti dal regista e - senza dubbio - uno dei più arditi tecnicamente, in virtù del montaggio di Susan E. Morse, dello splendido e raffinato bianco e nero di Gordon Willis e dei sofisticati movimenti di macchina di Allen, come l'impiego del jump cut (il montaggio discontinuo con strappi visivi e sonori) per la rappresentazione dell'esaurimento nervoso di Dorrei.