Recensione Look Both Ways - Amori e Disastri (2005)
La grazia dell' australiana esordiente Sarah Watt e le disgrazie dei suoi personaggi lungo gli annodati percorsi dell'anima in un film intelligente e innovativo.
Capita sempre più raramente di sentir parlare di pellicole indipendenti di autori il cui nome suona completamente nuovo, sfuggito alle regole della megamediatizzazione recente che risucchia nel suo calderone i blockbuster e i filmoni autoriali, e talvolta autoreferenziali, più attesi e più discussi della stagione. Capita sempre più raramente di vedere un film la cui trama e il cui stile risultino veramente audaci, segni rivelatori di un coraggio che non appartiene in esclusiva ai giovanissimi.
Look both ways- Amori e disastri è un film in cui la mescolanza di elementi eterogenei che non collimano perfettamente, ma si aggiungono a vicenda come in una composizione vintage, trascina lo spettatore e lo lascia costeggiare zone d'ombra senza mai oscurarlo pienamente, dinamiche astruse senza incitarlo mai a godersi qualche franca risata. Il collante del film è nella tonalità, mai rosea e mai scremata, delle condizioni esistenziali in un formicaio umano tanto vario e tanto simile, nel ritmo cadenzato delle collisione degli eventi disastrosi che esplodono nel bel mezzo della routine mentre i sentimenti e le reazioni emotive implodono tacitamente.
Come gli stormi di uccelli nel cielo dell'incipit, ma verso una direzione ancora imprecisa, i protagonisti compiono le loro peregrinazioni quotidiane ignari di quello che un solo giorno sta per scombinare. Meryl è appena tornata dal funerale del padre, morto in circostanze piuttosto bizzarre. Nick è appena tornato dall'ospedale, dove gli hanno diagnosticato il cancro. Andy ha appena saputo che diventerà papà e non l'aveva messo in conto. Le loro esistenze s'incrociano brutalmente lungo i binari di una ferrovia, testimoni di un incidente che ha fatto perdere la vita a un uomo. Meryl è shockata da quello che ha visto. Nick fotografa per il suo giornale il volto tramortito di una donna che è appena diventata vedova: lui che ha sempre visto la morte da un obiettivo, ora fa i conti da uno zoom ancora più ravvicinato. Andy scrive un articolo negando tragicamente l'eventualità di una morte in grado di sottrarci del nostro arbitrio. Uno scenario perfettamente orchestrato all'argine dell'ineluttabilità tramuterà ben presto i loro piccoli drammi in insperati motivi di felicità.
Il personaggio di Meryl, interpretata con aplomb semplicemente raggiante da Justine Clarke, che facciamo fatica a non accostare alla collega anglosassone Sally Hawkins in Happy Go Lucky - La felicità porta fortuna, è un delizioso osanna a una bizzarria tutta femminile che s'abbiglia con sciattezza e s'interroga con eleganza di gesto e pensiero. La donna è come una bambola di vetro: vive quasi in un altro mondo, vive in un suo mondo per proteggersi dai cataclismi che potrebbero piombarle addosso da un momento all'altro. Eppure più che alla francesina deIl favoloso mondo di Amélie, procacciatrice di piccole e ingenue emozioni, somiglia a Bridget Jones, un po' imbranata, incautamente romantica, dolcemente allegra ma inevitabilmente sfigata. La sua fragilità tutta femminile, come quella dei personaggi secondari, tutti descritti con meticolose sfumature psicologiche mai accessorie che ricordano certe descrizioni intrise di humour nero di Robert Altman, è il regno di un'impotenza complessa e delicata cui risponde, con perfetta simmetria narrativa, l'assonante universo maschile: sembra quasi che la Watt ci voglia dire che in fondo il male e la negatività sono scevri da posticce scorciatoie sessiste e dotati di omogeneità e universalismo schiaccianti.
Il messaggio del film, quello di una piatta sociologia apocalittica, per fortuna si disperde nelle sorprendenti zone visive delle fantasmagoriche allucinazioni della paranoica Meryl in cui l'originale tocco della regista d'animazione riesce a dare un'energica e benefica sferzata di freschezza e anticonformismo. In fondo a convincerci sono più le stravolgenti re-visioni della realtà che deragliano i binari della normalità della protagonista femminile che i potenti bombardamenti visivi, carichi di suggestioni ansiogene, di allusioni farraginose e di reiterati messaggi antitabagismo, che la coscienza di Nick elabora di fronte allo spettro invasivo della morte. Perché nel variare sul tema interno, stemperato ben oltre il difetto di certi schematismi tra gli intrecci narrativi e le trovate tutt'altro che banali, come nella cinematografia di Paul Thomas Anderson, e nel variare col tema esterno, quello della ipercostruzione visuale, che esplora nuovi territori linguistici della frapposizione e della sovrapposizione dei generi, la regista australiana Sarah Watt, che ha alle spalle anni di esperienza nel campo dell'animazione, ma qui è alla sua opera prima, si rivela capace di condurci in un quadro molto più articolato della realtà.