E' sempre interessante avere a che fare con un personaggio che, nel bene o nel male, rappresenta un'icona. Arnold Schwarzenegger, insieme ad altri eroi del cinema d'azione, è un po' emblema di quegli anni '80 che tutti noi abbiamo amato/odiato, di quell'estetica muscolare e patinata insieme contro cui ora si possono lanciare strali e/o scomuniche, ma la cui importanza, nell'evoluzione del gusto cinematografico, non si può ignorare. Così, Schwarzy, dopo un'esperienza politica del tutto coerente con il suo personaggio (governatore repubblicano della California) è tornato sul grande schermo: lo ha fatto con un film che, per una volta, ha visto l'arrivo a Hollywood di un regista orientale che è riuscito a mantenere (bene) la sua estetica. The Last Stand - L'ultima sfida è azione muscolare con un po' di nostalgia per gli eighties, e insieme stilizzazione grottesca di marca sudcoreana: gli estimatori di entrambi i generi avranno pane per i loro denti.
La chiacchierata che abbiamo fatto con l'ex governatore ci ha restituito, comunque, una star simpatica, sicura di sé senza spacconaggine, che mostra una notevole sincerità nel descrivere il suo amore per certo cinema, e la sua rinnovata voglia, a sessantacinque anni, di divertire e divertirsi davanti a una macchina da presa.
Lei è il re del cinema d'azione. Qual è la sua opinione sulla carriera di Johnny Knoxville, che può essere considerato il re dell'azione "reale"?
Arnold Schwarzenegger: La differenza è che nei miei film le cose devono rompersi, mentre nei suoi la gente ride in quanto le cose si rompono: in tutti i suoi film ci sono incidenti, scontri, gente che si fa male e cose del genere, ma è tutto divertimento, la gente ci ride. Ho detto ai miei figli che ci sarebbe stato Johnny Knoxville, nel film, e loro erano molto emozionati: noi guardiamo sempre i suoi film a casa, loro ci si divertono ed è bello guardare le loro reazioni. Questo tipo di humour viene apprezzato sia da ragazzi molto giovani che da persone anziane, e questa è un'altra differenza: tutti ridono dei film di Johnny.
Lui è un poliziotto che pensa di andare in pensione, cosa a cui io invece non penso affatto. E' un personaggio che si pone molte domande, che è ferito e ne ha passate tante quando lavorava a Los Angeles: così, va in una cittandina e diventa solo un piccolo sceriffo. Ma tutt'a un tratto, inaspettatamente (così come succede sempre nella vita) qualcosa di schiacciante arriva sulla sua strada: quando succede, nessuno pensa che lui sia in grado di far fronte a ciò, e non ci crede neanche lui. Così, deve frugare nel profondo di sé e risvegliare l'eroe d'azione che una volta era; ed è di questo che il film parla, è un film proprio su di lui, che prima di convincere chiunque altro deve convincere sé stesso di poter affrontare questo nemico.
Com'è stato tornare a fare un film d'azione dopo aver fatto il governatore della California per 10 anni?
E' stato bellissimo. Il vantaggio che ho, che poi è lo stesso di Sylvester Stallone, Bruce Willis, Chuck Norris e Jean-Claude Van Damme, è di potermi allenare sempre, ogni giorno; la gente lo sa, ed è per questo che è così difficile rimpiazzare eroi del cinema d'azione come noi. Noi siamo reali: Van Damme è un esperto di arti marziali, Stallone sa come tirare di boxe e all'occorrenza sferrare calci, io mi alleno da 40 anni e riesco ancora a sollevare 250 kg: ed è per questo che, quando a 65 anni vado a interpretare un film d'azione, mi sento in forma e sento di poterlo fare. Certo, alla mia età magari ci si fa male più spesso, e il fisico non recupera così velocemente come a 30 anni, ma comunque tutte queste cose posso ancora farle, non mi manca mai l'energia. Per me, inoltre, tornare a un action movie è stato anche divertente: fare film è un po' come tornare ragazzini, a differenza del lavoro di governatore, che invece richiedeva serietà. Fare un film come questo significa fare, a 65 anni, tutte le cose che volevi fare da ragazzino: guidare una macchina a grande velocità tra i campi di grano, saltare dai palazzi, fare acrobazie, sparare, ecc. E' tutta roba estremamente divertente!
Ci abbiamo lavorato parecchio, abbiamo provato la cosa per un intero weekend, colpo dopo colpo, senza stunt. Così, quando siamo andati sul set, sapevamo esattamente, nei minimi dettagli, cosa dovevamo fare: come dovevamo colpire e quando cadere e come farlo. Abbiamo fatto il più possibile noi, limitando a un paio di momenti la presenza degli stunt: tra questi, una ripresa molto pericolosa, in cui dovevo sollevarlo e fargli sbattere la testa su un ponte di metallo, che era un ponte vero. Ma tutto il resto, l'abbiamo fatto noi.
Il film ha un look molto western, per molti versi ricorda Un dollaro d'onore. E' d'accordo?
Sì, ma l'aspetto del film non ha nulla a che fare con me, e non ho il diritto di prendermi nessun credito per esso. E' tutta farina del sacco di Kim Ji-woon: anche perché il film in realtà non è scritto come un western, e il look che ha è frutto della sua interpretazione. Un altro regista avrebbe dato alla città tutt'altro aspetto, l'avrebbe fatta più grande, non l'avrebbe fatta somigliare a una cittadina di un western, così come non avrebbe costruito i personaggi in quel modo, non avrebbe creato i campi di grano così come li vediamo nel film, ecc. E' la sua visione: lui ama il western, e ha voluto girarlo in questo modo. Ma io non dovevo necessariamente pensarci, il mio compito era piuttosto pensare al personaggio.
Conosceva i film di Kim Ji-woon, prima di lavorare con lui?
Sì, ne avevo già visti due. Poi, quando ci siamo incontrati, lui mi ha fatto avere i DVD di tutti gli altri, e sono rimasto veramente meravigliato dal suo stile e dal suo modo di girare.
Sì, ci sono molte differenze. Credo che il modo in cui gira, il look che dà al film, la stessa fotografia e il modo di muovere la macchina da presa, siano molto diversi. Ha un approccio diverso rispetto ai registi americani, cerca sempre un modo nuovo di guardare alle cose, anche il suo modo di scegliere la musica è del tutto particolare. E' unico.
Lei torna al cinema dopo dieci anni. Qual è la differenza principale che trova, ora, nel business cinematografico?
Penso che una cosa sia sempre uguale: la gente vuole vedere buone storie e buoni film. Questo non cambia mai. La differenza sta nel lato del business: dieci anni fa si sarebbero investiti 100 milioni di dollari in qualsiasi film d'azione, mentre oggi è facile spenderne solo 45. E' un mondo diverso, è diversa l'economia ed è diverso il cinema: i film stanno meno tempo in sala ma vengono distribuiti in tutto il mondo, le co-produzioni sono la norma, è ormai un mercato globale. Quando feci Conan il barbaro e dissi che volevo promuoverlo in Giappone, mi guardarono come un pazzo: ora invece è diventato normale andare nei diversi paesi a promuovere un film, perché i produttori hanno realizzato che siamo in un'economia globalizzata, e che i film devono essere visti e apprezzati in tutto il mondo. Ora è normale, per noi, girare un film in Italia, in Germania o in India, e mostrarlo ovunque: Hollywood non ha più la chiave della serratura dell'industria cinematografica.
Sì, mi viene in mente The Rock, che poi fu fatto da Nicolas Cage. Rifiutai perché Jerry Bruckheimer e il suo partner vennero da me con 80 pagine di sceneggiatura che trovai pessima, scritta malissimo. Dissi loro: "ragazzi, voi mi piacete, voglio lavorare con voi, ma questa sceneggiatura va riscritta da capo". Si sono sentiti insultati: alla fine hanno riscritto la sceneggiatura, ma ci hanno messo Nicolas Cage! Non sempre le decisioni che si prendono sono giuste, a volte ti guardi indietro e pensi "quello è stato un gran film e io l'ho rifiutato". Fare film è come tutto il resto, nella vita: ci sono vincenti e perdenti. Alcuni film vanno alle stelle, e altri alle stalle: l'importante è, quando si cade, guardare il pavimento e dirsi "questo è il punto più basso in cui posso cadere". La chiave è rialzarsi e ricominciare a fare film, e non aver paura di cadere di nuovo.