La giacca di tweed con tanto di papillon che indossa Matt Reeves non sembrano proprio gli indumenti più adatti per la calura di Madrid dove lo incontriamo (di là dal vetro, fuori dalla stanza di hotel piacevolmente climatizzata, oggi sono 37°), e lo fanno sembrare quasi un distinto signore inglese piuttosto che l'ex ragazzaccio di Rockville Center, responsabile di quel fenomeno di cinema e marketing virale del 2008 chiamato Cloverfield, prodotto del suo amicone J.J. Abrams. "Siamo molto amici, è vero, ma la serie TV Revolution non l'ho vista, anche se in questo film abbiamo cercato di evocare le suggestioni di un mondo spento senza luce ed energia".
A quanto pare i destini dei due continuano ad andare a braccetto, perché se J.J. è diventato indiscutibilmente il re delle franchise mainstream, tra Star Trek e Star Wars, anche Matt Reeves ora si ritrova tra le mani una delle saghe più celebri della storia del cinema, dopo la rinuncia di Rupert Wyatt, regista del reboot del 2011. Oltretutto, visto il clamoroso successo de L'alba del pianeta delle scimmie con quasi 500 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, e questo Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie sembra destinato a bissarne il successo; una scommessa in cui pochi credevano si è trasformata ora in un'eredità molto onerosa per il quarantottenne regista di Blood Story. Matt Reeves sembra avere le idee molto chiare sul tipo di cinema che vuole fare (tanto da aver rifiutato la storyline iniziale proposta dalla produzione): percorrere la stessa strada riprendendo la componente emotiva chiave del successo del primo film, rilanciando forte sul piano del realismo e degli effetti speciali con il 3D nativo girato direttamente nelle location esterne. Tecnologia asservita alla storia raccontata dal punto di vista della scimmia Cesare, sfruttando al massimo la performance capture di Andy Serkis ("non vedo l'ora di riprendere il lavoro con lui, è così straordinario il territorio che riesce ad esplorare e quello che riesce ad esprimere con questa tecnica") per un film che in fondo parla soprattutto della natura umana, come ci ha raccontato in questa lunga intervista.
L'alba del progetto
Ci racconti di come è stato coinvolto nel progetto dopo la rinuncia di Rupert Wyatt?
Matt Reeves: E' successo tutto molto all'improvviso. Avevo incontrato tempo prima Dylan Clark, uno dei produttori: aveva un poster de Il pianeta delle scimmie nel suo ufficio perché suo padre aveva che fare con la serie tv di cui io ero un fan sfegatato, per cui iniziammo a parlarne anche se quello non era l'oggetto del meeting. Poi quando Rupert ha deciso che non avrebbe più fatto il film, sul quale per altro stava già lavorando da parecchio tempo, ho ricevuto una chiamata da Dylan che, memore di quell'incontro, mi chiese se fossi interessato.
E lo era, evidentemente?
In realtà quando all'inizio lessi la storyline sulla quale Rupert stava lavorando volevo rifiutare, perché la storia era molto diversa quella che è adesso. Iniziava in una San Francisco post apocalittica, con le scimmie che ridanno energia alla città e cominciano a viverci, potevano già parlare in maniera corretta, erano già evolute e senzienti quasi come esseri umani, come nel primo film del 1968... soprattutto non era il film di Cesare, non era la storia dal suo punto di vista che era invece quella che io volevo raccontare, per partire dal mondo che le scimmie avevano creato. Quello che è stato miracoloso del reboot è stato poter rientrare nell'universo di Planet of the Apes ma da una prospettiva completamente diversa, ed era questa la strada che io volevo proseguire, raccontare la storia dal punto di vista delle emozioni di una scimmia, dal punto di vista di Cesare. Lui era la vera star del film, un grande personaggio, il leader di questa grande famiglia, una sorta di Don Corleone della famiglia delle scimmie. Solo successivamente, nella mia visione, si sarebbe dovuto scoprire che c'era ancora un'altra famiglia, quella degli umani, per cui il film sarebbe diventato una sorta di western post apocalittico con due specie che si contendono il dominio del pianeta. Sappiamo già dove conduce questa strada, ma avevamo l'opportunità unica di raccontare che cosa è successo prima.
E glielo hanno lasciato fare?
Dissi 'questa è la storia che voglio raccontare', e gli studios mi hanno detto ok, per cui ho accettato e con Mark Bomback abbiamo rimesso mano allo script ed ecco il risultato.
L'esplorazione della natura umana attraverso i primati
Il film ha una scrittura eccellente sotto vari livelli e si presta a molte chiavi di lettura e di interpretazione: si parla di sopravvivenza, di istinto di conservazione, di come le differenze e la mancanza di fiducia nel prossimo possano essere le cause scatenanti di un conflitto, di estinzione e di evoluzione. Qual è secondo lei in fondo il tema principale del film?
Abbiamo in effetti provato a mettere tutto questo nel film, ma direi che soprattutto il tema principale è l'esplorazione della natura umana e di come questa sia rapportata alla violenza, un film sull'empatia con gli altri e su quello che succede quando questa viene a mancare, che è la cosa che reca in se uno dei semi da cui nasce la violenza. Quando non riesci a trovare un riflesso di te nell'altro che hai di fronte allora può essere facile entrare in conflitto.
Cesare dice: "Ho scelto di fidarmi di Koba perché pensavo che le scimmie fossero migliori degli uomini ma non è vero, adesso vedo quanto siamo simili a loro". Esatto, sia io che Mark Bomback eravamo molto eccitati perché trattandosi in fondo di una grande science fiction story potevamo raccontare la natura umana attraverso il punto di vista di una scimmia, ribaltando le prospettiva, tipo attraverso uno specchio rovesciato... Il paradosso di un animale che realizza di essere diventato troppo umano, quando realizza che la mancanza di empatia è una cosa che appartiene tanto agli animali quanto agli uomini. Lo shock che segue alla presa di coscienza che non siamo migliori degli altri come abbiamo sempre creduto: e Cesare è un personaggio chiave della storia proprio per questo, è stato cresciuto dagli umani per cui a differenza di tutti gli altri è tanto umano quanto scimmia.
La mancanza di fiducia negli altri, pensare che siamo migliori degli altri e incolpare gli altri per le nostre miserie e le nostre sofferenze sono elementi che possono facilmente condurre alla violenza e allo scoppio di un conflitto. I riferimenti all'attualità sembrano purtroppo evidenti...
Questa è l'idea, elementi ricorrenti in ogni epoca che è stata teatro di guerre, e ancora oggi basta guardare quello che sta succedendo di nuovo in Medio Oriente.
Realismo, performance capture e 3D nativo
A proposito di riferimenti alla realtà, il realismo sembra essere una componente fondamentale del film. Per essere appunto un science fiction movie, l'unica componente fantastica sembra essere quella della super intelligenza delle scimmie.
La cosa veramente miracolosa del primo film secondo me era il coinvolgimento emotivo, il modo in cui è stata trasferita la performance di Andy nel personaggio di Cesare. Volevo proseguire su questa strada, conservare questa componente emotiva ma spingermi ancora oltre sulla strada del realismo. Prendere quest'unico elemento fantastico ed inserirlo in un contesto che fosse percepito come il più reale possibile per amplificare al massimo le emozioni.
C'entra con questo anche la scelta di girare in 3D nativo oltre alla performance capture non in studio ma portando direttamente la strumentazione nelle location in esterna? Il primo film è stato girato per il 75% in studio, io volevo fare l'opposto, girare quasi tutto il film in esterni in modo che il progetto ne guadagnasse in termini di realismo: volevo che l'ambiente fosse reale, che si percepissero anche le condizioni avverse in cui ci trovavamo, non volevo ricreare le foreste in studio. Volevo girare in mezzo alla pioggia e al fango, vedere il respiro di Cesare che si condensa per il freddo. Sapevo che sarebbe stato massacrante portare tutto l'equipaggiamento là fuori e girare in quelle condizioni, soprattutto una vera sfida per i ragazzi della Weta Digital: ma il livello di realismo è molto più alto, a partire dalle performance degli attori che erano molto più stimolati dall'interazione con l'ambiente.
E dove avete girato principalmente? Le foreste sono quelle intorno a Vancouver, e abbiamo ricostruito la San Francisco post apocalittica reclamata dalla natura in una vasta area della downtown di New Orleans, una zona molto ampia con i resti di parcheggi e luna park distrutti dall'uragano Katrina.
Il mondo senza di noi
Anche la visione distopica rispetto al futuro dopo l'apocalisse del virus mi sembra sia frutto di ricerche per ricreare un ambiente plausibile su come la natura avrebbe rivendicato la terra e sui primi passi di una società primitiva? Siamo stati molto accurati anche in questo, uno dei testi su cui ci siamo basati è Il mondo senza di noi di Alan Weisman che spiega su basi scientifiche quali sarebbero le ripercussioni sull'ambente sia naturale che artificiale, quindi edifici, strade, strutture create dall'uomo, se l'umanità scomparisse dalla faccia della terra. La cosa incredibile è stato riscontrare che appunto a New Orleans, nel luoghi abbandonati dopo la devastazione di Katrina dove abbiamo girato, il disfacimento degli edifici e il modo in cui la natura ne sta riprendendo possesso sta già avvenendo esattamente come è descritto nel libro. Ti fa sentire quasi come un fantasma sul tuo stesso pianeta.
L'idea di un mondo senza energia e senza elettricità è molto suggestiva, è la stessa alla base di Revolution, la serie prodotta dal suo amico J.J. Abrams.
Oh sì, io e J.J. siamo molto amici, ma io sfortunatamente non ho visto la serie; però sì, il tema di un mondo spento senza energia è uno di quelli presenti nel film.
L'idea era affascinante, forse la serie non è stata sviluppata nel migliore dei modi. Nel film invece la scena in cui gli uomini ritrovano l'energia è molto emozionante, cosa si prova a risentire la musica dopo tanto tempo, rivedere le foto dei propri cari su un tablet. Volevamo trovare un modo per descrivere come il ritorno della corrente elettrica poteva essere percepito in un ambiente divenuto primitivo, per questo ci è venuta in mente la stazione di benzina abbandonata nella foresta: l'idea di tutti questi documenti lasciati indietro, abbandonati e poi ritrovati, come delle foto, una vecchia canzone, era in effetti molto evocativa, di nuovo serviva a rendere l'idea di come ci si possa sentire un fantasma sul tuo stesso pianeta.
Che già sappiamo che diventerà Il pianeta delle scimmie, anche se non lo è ancora ma la strada è quella evidentemente. A proposito, sa che il titolo italiano sarà diverso dall'originale perché non potevano usare la parola alba per tradurre dawn perché l'avevano già usata per tradurre rise nel primo film? Quindi in Italia il film si chiama Apes Revolution. Non non lo sapevo, l'ho appena scoperto. E ho pensato che in effetti sarebbe stato più adatto al primo film dove c'è una rivoluzione; questo film racconta piuttosto l'alba di una nuova era, quindi al limite l'avrei chiamato Apes Evolution. L'evoluzione è parte del divertimento di questa serie, è per questo che abbiamo voluto descriverla gradualmente, in maniera coerente ai dieci anni che sono trascorsi rispetto agli eventi del primo film. Questo è ancora il pianeta delle scimmie e degli umani, ma sulla strada che ci porta verso Il pianeta delle scimmie dobbiamo aspettarci ancora molta evoluzione.
Quindi per ora non avrà tempo da dedicare al progetto de La donna invisibile? Un film che voglio tanto, tanto, tanto fare... I miei impegni al momento non me lo permettono ma lo farò appena possibile: sarà il classico piccolo film low budget da realizzare velocemente, probabilmente dopo il prossimo capitolo di questa saga riuscirò a svignarmela per un po' e trovare il tempo per farlo.