Anatomia di un rapimento
Filippine, primavera del 2001. Una banda di separatisti islamici fedeli ad Abu Sayyaf fa irruzione in un resort situato sull'isola di Palawan e rapisce un gruppo di stranieri, per lo più turisti, per ricattare le autorità ed ottenere soldi e l'indipendenza dell'isola di Mindanao. Rapinati di tutti i loro averi e con ai piedi solo un paio di ciabattine, gli ostaggi vengono costretti ad affrontare un viaggio della disperazione via mare e via terra fino a raggiungere i terreni impervi delle montagne e la giungla più selvaggia e inospitale. Nell'odissea si ritrova catapultata anche l'assistente umanitaria Therese Bourgoine, che insieme alla sua anziana collega Soledad era appena sbarcata sull'isola per portare aiuti e provviste. Due donne capitate nel momento sbagliato nel posto sbagliato. Tra lacrime, sofferenze, negoziazioni con il governo, battaglie con l'esercito filippino, morti e difficili separazioni, il gruppo rimarrà insieme per oltre un anno fino alla violenta imboscata organizzata dai militari che metterà fine all'incubo.
Dopo averci cullato per le acque placide di Manila con lo struggente viaggio di Lola e dopo averci fatto saggiare il concetto di rapimento e di costrizione nel pluripremiato violentissimo Kinatay, il 'brillante' cineasta filippino decide di tornare nel suo Paese per raccontarci una cruda realtà, quella dei rapimenti di gruppo da parte di organizzazioni separatiste islamiche che usano questa vile arma psicologica per ottenere l'indipendenza politica di alcuni territori dal governo di Manila. Una pratica purtroppo molto diffusa che il regista ci racconta con crudezza e magistrale realismo catapultandoci in una natura ostile in cui la lotta per la sopravvivenza diventa l'obiettivo principale di ogni singolo individuo, che sia esso un animale o un essere umano. Ad aggravare la già drammatica situazione degli ostaggi una volta raggiunta la terraferma le piogge torrenziali che rendono ancor più pesante la prosecuzione della marcia senza méta che i ribelli hanno intrapreso con l'obiettivo di raggiungere una libertà che è solo immaginaria. Sono impressionanti le immagini che si susseguono sullo schermo durante le due ore di Captive, crude come la realtà che si consuma lontano da sguardi indiscreti, sporche di fango, cariche di significato e di simbolismi. Girato da Brillante Mendoza con una camera a mano perennemente al seguito dei protagonisti, il film mette sullo stesso piano entrambi gli schieramenti raccontando in maniera forse più approfondita le ragioni dei cattivi, uomini ottusi e impenitenti convinti di stare nel giusto, più che le sofferenze ed il travaglio di chi subisce le loro angherie in nome di Allah e di Osama Bin Laden. Frustrazione dunque, ma anche solitudine, incomunicabilità e dipendenza psicologica sono i fardelli con cui le vittime di questo rapimento dovranno convivere per oltre un anno della loro vita, passato in cattività nella giungla a contatto con sanguisughe, pipistrelli, serpenti, insetti e scorpioni, vagando in cerca di ristoro nei villaggi sperduti delle montagne filippine. Ad aggravare la sensazione di instabilità e di smarrimento la percezione dell'immobilismo di un governo che non da mai l'idea di voler risolvere la questione, sprovvisto di mezzi e uomini adeguati per combattere questo fenomeno senza mettere in pericolo le vite già profondamente segnate degli ostaggi. Mai troppo sentimentale nel raccontare le dinamiche affettive all'interno dei due schieramenti, e col passare del tempo anche tra gli uni e gli altri, il film si incentra sulla magnetica figura di Isabelle Huppert e della sua Therese, l'unica a non perdere mai di vista la sottile linea rossa che separa l'accettazione dall'approvazione, figura fulcro di tutta la storia sempre in grado di confortare i suoi compagni nei momenti tragici e abile nel non permettere a nessuno di perdere la speranza. Un personaggio che grazie alla bravura dell'attrice riesce ad incarnare alla perfezione orgoglio, coraggio e tenerezza. Certo Mendoza si permette qualche libertà di troppo introducendo diversi discutibili intarsi di CGI e qualche forzatura dei personaggi riguardo le implicazioni spirituali e religiose delle loro azioni, ma il risultato non cambia: le immagini che scorrono sullo schermo, in più di un'occasione, lasciano senza fiato. Su tutte la sequenza girata all'interno dell'ospedale, che con un montaggio di grande impatto emotivo intreccia violentemente la vita e la morte mostrando in primo piano la nascita (vera) di un bimbo dal corpo della mamma mentre fuori, nel mezzo di una sparatoria tra i rapitori e la polizia, si consuma una sanguinosa strage di innocenti. Senza un attimo di sosta e con la veemenza che constraddistingue il suo stile pragmatico ed allo stesso tempo profondamente intimista, Mendoza ci trascina in una devastante discesa negli inferi di uomini e donne in trappola, privati della loro libertà ma mai della loro dignità, almeno non intenzionalmente. La legge degli uomini, però, deve sottostare a quella incontrollabile della Natura, una dittatura cui non si può sfuggire, una giustizia totalitaria e senza anomalie di fronte alla quale siamo tutti uguali.
Movieplayer.it
4.0/5