Prima le cose scontate: American History X di Tony Kaye è un film, banalmente, ancora molto attuale. Banalmente perché la pellicola, datata 1998, racchiude in sé il pensiero di Hannah Arendt, quando seguì il processo ad Adolf Eichmann, tra i più spregevoli gerarchi del Terzo Reich. L'autrice descrisse come "banale" il male perpetuato dai nazisti durante l'Olocausto, in quanto non credeva che l'odio fosse indotto dall'anima, bensì da una totale inconsapevolezza delle proprie azioni. Il parallelo con il film di Tony Kaye, dunque, è lampante. Sia American History X che La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, sono due opere che seguono un processo, con due diversi imputati e due diverse giurie. Ora, il centro del nostro approfondimento non è il parallelo in questione, ma lo sfruttiamo per uno spunto e un'idea che, visti i tempi, è giusto rimarcare: l'odio non è una patologia congenita, ma un virus che infetta quando trova soggetti suscettibili, e facilmente ribaltabili.
Ci torneremo, prima però un po' di cenni storici: il film, tornato in streaming su Netflix, nasce dai ricordi dello sceneggiatore David McKenna (sparito dalla circolazione, dopo un folgorante inizio a cavallo del Duemila), e della sua infanzia a contatto con gli skinhead che popolavano la scena punk-rock di San Diego. "Ho visto un sacco di fanatismo. Ho cercato di sottolineare nella sceneggiatura che una persona non nasce razzista. Si impara attraverso l'ambiente e le persone che ti circondano. La domanda che mi ha incuriosito è: perché le persone odiano e come si fa può cambiare? La mia premessa era che l'odio inizia in famiglia", raccontò McKenna, passando la sceneggiatura alla New Line Cinema, forse nel suo apogeo produttivo. Se il casting fu complesso, in quanto doveva esserci Joaquin Phoenix al posto di Edward Norton (che ricevette la candidatura all'Oscar), la produzione e la post-produzione non furono processi semplici, in quanto Tony Kaye, all'esordio, rinnegò il film in quanto vennero cambiati, in accordo con Norton, alcuni passaggi nevralgici, tra cui il finale.
Il male nasce in famiglia
La parentesi l'apriremo dopo, anche perché il significato di American History X resta antropologico più che pratico: mettendo in scena la violenza nazista e la successiva redenzione di Derek Vinyard, la pellicola - simbolo di un certo cinema collaterale Anni Novanta - esplicava i cortocircuiti degli Stati Uniti d'America, schiacciati tra il progressismo e l'odio strisciante e pericoloso delle comunità neonaziste. La stessa malvagia banalità che infetterà Derek da ragazzo, a pranzo con quel padre poliziotto che gli spiegherà il "pericolo" delle minoranze etniche sull'identità nazionale (sfumature non dissimili dalla retorica di Trump). Lo stesso banale odio che Derek passerà, tra una svastica e una lettura del Mein Kampf, a suo fratello minore, interpretato da Edward Furlong, astro nascente di fine Millennio purtroppo bruciato dalla droga e dall'alcol.
L'odio in American History X è quindi un circolo vizioso, un virus che elude le difese intellettuali andando ad appestare la libera capacità di pensiero, di giudizio, di tolleranza. Ma l'odio, dopo un processo emotivo, e dunque dopo una ritrovata consapevolezza, può essere considerato come "una palla al piede". Del resto, se "la vita è troppo breve per passarla sempre arrabbiati", la luce di speranza, che illumina fiocamente il percorso di guarigione di Derek Vinyard, è un barlume nel mezzo di un insieme che scaturisce violenza e intolleranza. La speranza, quindi, nel beffardo e spietato finale, verrà poi distrutta dalla natura crudele di una realtà ormai alterata dalla rabbia e dalla ferocia. Per questo, pur banale, il male è un patogeno che lascia scorie, anche quando viene estirpato dalla testa.
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La versione finale di Edward Norton per un barlume di speranza
Il percorso auto-processuale di Derek riempie il film, intervallato dai flashback in bianco e nero, splendidamente ritratti dalla fotografia di Tony Kaye. Come se fossero più film in uno, American History X mette insieme l'infezione, l'incubazione e gli aspetti sintomatici del male, fino allo shock che porterà al risanamento ideologico. Pur didascalico in alcune scelte, e poco interessato nel narrare le influenze razziste degli Stati Uniti (siamo a Los Angeles), l'opera di Kaye è interessata a delineare la fragilità dei due protagonisti, ma anche la lucida rigidità con cui hanno affrontato il viaggio catartico, preferendo il giusto allo sbagliato. E qui ci riallacciamo alla diatriba produttiva: Tony Kaye perse ogni abbrivio nei confronti di Hollywood dopo aver preso posizione verso la versione finale che riteneva più giusta, andando contro il parere della New Line Cinema e di Edward Norton, che durante la lavorazione fece già apportare cambiamenti allo script. Il clima, per restare in tema, si fece burrascoso quando Norton collaborò al montaggio, che allungò la durata di quasi venti minuti.
Solo dopo anni, e solo dopo diverse cause legali, Tony Kaye (quasi ai margini del cinema), chiese scusa, in quanto l'astio "era dettato dall'ego". Tuttavia, se il male è banale, il diavolo è davvero nei dettagli: pare che il finale voluto da Tony Kaye prevedesse di nuovo Derek con la testa rasata, a rimarcare una ciclicità infettiva come fosse un herpes dormiente. La verità delle cose, come accade spesso, non la sapremo mai. Ciononostante, il lascito di American History X, è tutt'oggi potente, e nevralgico in termini ideologici e politici: la guarigione dal male, infatti, non basta ad estirparlo, né ad addomesticarlo. Se ne parliamo, se ancora ne scriviamo, riflettendo sulle increspature del film, è perché la malvagità, pur scontata e banale, è ancora lì fuori, intatta, riecheggiando nei moti dell'ultra-destra contemporanea. Anche per questo, con la sua imperfetta narrazione e nell'esile speranza, America History X è un film socialmente centrale, e propedeutico nel toccare "Le corde mistiche della memoria". Del resto, come dice Derek, non c'è niente di meglio che concludere uno scritto con una citazione. C'è sempre qualcuno che ha detto una cosa prima, e nel migliore dei modi.