Carver costruiva le sue storie partendo da incidenti insignificanti. I suoi personaggi non erano affatto persone straordinarie, e anche eventi terra terra potevano assumere un importante significato emotivo. E poi i racconti erano così privi di struttura che nessuno avrebbe detto in maniera automatica: "Oh, facciamone un film".
Nell'oscurità notturna di Los Angeles, un nugolo di elicotteri si alza in volo per spargere sulla città una sostanza insetticida contro un parassita della frutta: il tentativo di debellare una sorta di "piaga biblica" che ha colpito l'America dei nostri tempi. Tre ore più tardi, è un'altra catastrofe ad abbattersi all'improvviso sulla metropoli statunitense: un terremoto che, per una fatidica manciata di secondi, interrompe le esistenze dei personaggi, per lasciare che subito dopo la vita riprenda a scorrere esattamente come prima. "Sono sicuro che a ogni terremoto è legato un evento drammatico nella vita di qualcuno", commenterà in proposito Robert Altman, per il quale la scossa sismica funge da conclusione al maestoso affresco tragicomico di America oggi, liberamente ispirato a nove racconti di Raymond Carver e a una poesia dello scrittore americano, Lemonade.
La rivincita di Robert Altman
L'1 ottobre 1993 America oggi, intitolato in originale Short Cuts (traducibile come "scorciatoie", ma anche "frammenti"), fa il suo debutto al cinema negli Stati Uniti e in Italia, a neppure un mese di distanza dalla sua trionfale presentazione alla Mostra di Venezia. Per Robert Altman, che allora aveva sessantotto anni, si tratta del coronamento di un progetto coltivato da tempo e non senza difficoltà produttive, e che sancisce il suo definitivo riscatto dopo essere rimasto per oltre un decennio ai margini dell'industria hollywoodiana. Dopo il bizzarro blockbuster disneyano Popeye del 1980, il prodotto in assoluto più atipico della sua filmografia, Altman si era dedicato infatti a pellicole realizzate con budget irrisori e destinate al circuito delle distribuzioni indipendenti; spesso con ottimi risultati sotto il profilo artistico (Jimmy Dean, Jimmy Dean, Streamers), ma rimaste confinate al ristretto pubblico dei festival e delle sale d'essai.
Dopo la curiosa parentesi televisiva di Tanner '88 e della co-produzione europea Vincent & Theo, il 1992 aveva visto l'inaspettato ritorno alla ribalta di Robert Altman con il suo primo successo trasversale dall'epoca della New Hollywood: I protagonisti, corrosiva satira sul mondo dello spettacolo che di colpo lo riporta in auge e gli fa guadagnare una pioggia di riconoscimenti, da Cannes agli Stati Uniti. Sull'onda dell'eccellente riscontro per I protagonisti, il cineasta di Kansas City inizia a girare il copione che lui stesso aveva scritto a quattro mani con Frank Barhydt prendendo spunto dai racconti di Raymond Carver, potendo contare sulla partecipazione di una ventina di attori di notevole fama: star già affermate (Matthew Modine, Tim Robbins, Robert Downey Jr, Frances McDormand, Andie MacDowell, Madeleine Stowe, Jennifer Jason Leigh), talenti in ascesa quali Julianne Moore, volti noti (non solo nel cinema) come Lily Tomlin e Tom Waits e perfino una leggenda del calibro di Jack Lemmon.
Robert Altman: da America oggi a Nashville, 10 capolavori di un regista indimenticabile
L'America di Altman, ieri, oggi e domani
Contraddistinto da un'ampia struttura corale che rievoca quella di precedenti classici altmaniani, a partire dall'immortale Nashville, America oggi riceve un'accoglienza entusiastica al Festival di Venezia 1993, aggiudicandosi il Leone d'Oro come miglior film (ex aequo con Tre colori - Film blu di Krzysztof Kieslowski) e una Coppa Volpi speciale per il cast, mentre Robert Altman sarà insignito di un'altra nomination all'Oscar per la regia ad appena un anno di distanza dalla candidatura per I protagonisti. Un plebiscito che certifica l'immediata inclusione di America oggi nel canone dei capolavori altmaniani, pure in virtù dell'abilità nel riadattare la fonte letteraria alla poetica del regista: la lucida osservazione di un'umanità colta in un quotidiano che ne mette in luce ambizioni, fragilità e miserie, con una naturalezza in grado di affrancare l'opera da ogni tentazione retorica o moralistica e, al contempo, svincolandola dallo specifico contesto della periferia losangelina.
Perché sebbene Los Angeles funga da teatro delle vicende intrecciate di oltre venti comprimari, il carattere minimalista delle storie di Carver permette al film di assumere un'ideale universalità, rimarcata in chiave antifrastica proprio dal titolo italiano: mentre Nashville trasformava la capitale del Tennessee in una sineddoche degli Stati Uniti degli anni Settanta, restando ancorato all'immaginario della musica country e alla descrizione di quello specifico microcosmo socio-culturale, gli individui di America oggi appartengono a un "qui e altrove" che potrebbe riferirsi all'Occidente di ieri e di adesso. Insomma, un "oggi" senza tempo che consente ad Altman di esplorare le contraddizioni, le piccole meschinità e le sommesse nevrosi dei suoi personaggi, con un disincanto che tuttavia rifiuta di incancrenirsi in un indiscriminato cinismo, lasciando piuttosto qualche spiraglio a scintille di autentica empatia; come nell'incontro finale fra i coniugi Finnigan (Bruce Davison e Andie MacDowell) e il pasticcere Andy Bitkower (Lyle Lovett), tratto da Una cosa piccola ma buona.
Nashville, il capolavoro di Robert Altman che ha cambiato la storia del cinema
Aspettando il terremoto
Nel bersaglio del regista, ovviamente, ci sono ancora le ipocrisie che si estendono come crepe nel quadro idilliaco dell'American way of life: ne è emblema il Gene Shepard di Tim Robbins, con le sue velleità da autoritario padre di famiglia, geloso della moglie Sherri (Madeleine Stowe) ma possessivo pure con l'amante, Betty Weathers (Frances McDormand), e che non esita ad abusare del ruolo di poliziotto per soddisfare le proprie velleità di conquista. C'è poi il dramma coniugale borghese, dal sapore quasi bergmaniano, nel confronto-confessione fra Ralph Wyman (Matthew Modine) e sua moglie Marian (Julianne Moore), nonché quello ben più ironico incentrato sulla silenziosa frustrazione di Jerry Kaiser (Chris Penn), che ascolta la moglie Lois (Jennifer Jason Leigh) mentre lavora per una linea erotica nel pieno di banali faccende domestiche; se non fosse che, nel suo caso, lo spunto buffonesco si rovescerà di colpo in tragedia.
In questo variegato arazzo di vite interconnesse, la cui influenza si estenderà a diversi cineasti a venire (un esempio su tutti Magnolia di Paul Thomas Anderson, il film più altmaniano del massimo 'discepolo' di Altman), è paradossale che l'elemento più ricorrente sia l'incomunicabilità, l'essere incapaci di percepire appieno i sentimenti altrui e la sofferenza di chi ci è accanto. Accade all'egocentrico nonno Paul di Jack Lemmon, alla cantante di night-club Tess Trainer (Annie Ross) verso la figlia Zoe (Lori Singer) e ai tre pescatori che decidono di abbandonare il cadavere di una ragazza. E accade perfino dopo il terremoto: "Se sei della California, sono cose all'ordine del giorno", commentano pigramente le due coppie, allontanandosi dal notiziario per andare a versarsi una tequila. La morte di una persona è solo una notazione a margine, l'ennesimo It Don't Worry Me di una società troppo distratta per preoccuparsi dell'apocalisse.