Ci sono registi che sanno incidere, che riescono a non lasciare indifferente lo spettatore anche nelle loro opere meno riuscite. Julia Ducornau, che ci aveva già colpiti a fondo con Raw e Titane è innegabilmente una di queste autrici capaci di lasciare il segno nello spettatore. E lo fa anche nel nuovo lavoro presentato a Cannes, al cinema dal 18 settembre con I Wonder Pictures, ossia Alpha, che da una parte si rivela meno a fuoco e riuscito dei film precedenti, ma allo stesso tempo conferma e sottolinea il talento di una regista tra le più potenti e visionarie del panorama contemporaneo. Una delle voci più interessanti e degne di nota che ci sia capitato di intercettare negli ultimi anni.
La A di Alpha e lo spettro della malattia

Protagonista del film di Julia Ducournau è la tredicenne Alpha, adolescente inquieta di origini berbere (Mélissa Boros) che vive con la madre (Golshifteh Farahani), dottoressa impiegata in una clinica specializzata. La routine della loro esistenza subisce un contraccolpo quando la ragazza torna da una festa con una "A" incisa rozzamente sul braccio, un tatuaggio amatoriale che suscita nella madre la preoccupazione che possa aver contratto un pericoloso virus che viene trasmesso col sangue e che si sta diffondendo sempre di più. Si tratta si una malattia pericolosa quanto inquietante, il cui effetto visivamente suggestivo è di pietrificare quelli che la contraggono, trasformandoli in statue di marmo. In questa situazione di inquietudine e paura, metafora e specchio di quel che era stata l'AIDS tra gli '80 e i '90, a casa delle due donne arriva lo zio tossicodipendente della ragazza.
Lo spaccato di una mutazione

C'è un dettaglio interessante che emerge dalle note di regia della Ducournau e su cui riflettevamo anche durante la visione: quella che viene mostrato in Alpha non viene trattata alla stregua di una trasformazione, ma di una mutazione, di cui ci viene raccontato uno spaccato, un momento. Un qualcosa che ha un prima e un dopo, su cui il film si sofferma per un tratto del percorso che la regista fotografa con cura. Se la trasformazione ha inizio e una fine, la mutazione dà la sensazione di un qualcosa in divenire, quindi ancor più interessante, inquietante, spiazzante. Un aspetto della storia di Alpha che la regista mette in scena sottolineandone sia gli aspetti più suggestivi e visivamente magnetici, sia quelli più disturbanti e angoscianti. In più di una sequenza, infatti, ci si trova sia affascinati dall'aspetto dei contagiati in stato avanzato della malattia, sia disturbati dagli effetti del virus sui corpi, per i quali la regista conferma di avere una grande attenzione.
L'approccio sottile, e disturbante, al genere
Quella che viene raccontata in Alpha è una storia al tempo stesso intima e potente, che pecca solo di una certa confusione di scrittura che rende a tratti difficile seguire il fluire del racconto. C'è forse troppa carne al fuoco, troppo elementi che contribuiscono a sporcare inutilmente la sottile emotività dell'intreccio. Dispiace, perché parallelamente la regista ha affrontato il genere con una maturità e una delicatezza maggiori rispetto al passato: se Raw e Titane colpivano duro e non rinunciavano a sfruttare la potenza e le derive visive dell'horror, Alpha lavora per sottrazione lasciando che le declinazioni del genere si muovano sotto la superficie, per sedimentare in modo strisciante e forse ancor più disturbante sulla media e lunga distanza. È il cinema che ci piace, quello che non ci lascia al termine della visione e ci accompagna nella nostra quotidianità.

Nel nuovo lavoro di Julia Ducournau abbiamo visto i semi di quello che potrà essere il suo cinema in futuro, ancor più potente pur nella sua intimità, spiazzante e travolgente. E poco importa se Alpha ha qualche problema di troppo, se serve come banco di prova per quel che verrà e che non vediamo l'ora di goderci in futuro.
Conclusioni
Alpha è un film diverso da Titane, che sfrutta il genere e le sue suggestioni in modo più sottile e per questo ancor più spiazzante nella sua intimità. Peccato per un confusione narrativa che rende meno immediata la storia, per i troppi elementi e i diversi piani narrativi che rischiano di disorientare lo spettatore, perché è evidente e innegabile di trovarci al cospetto di un'autrice che ci regalerà momenti di grande cinema, di cui vediamo riflessi anche in un'opera meno riuscita.
Perché ci piace
- La capacità dell'autrice di colpire lo spettatore, che qui si presenta in modo più sottile e strisciante.
- La potenza evocativa del virus e delle sue conseguenze.
- La costruzione visiva in generale, che ci regala immagini di grande efficacia.
- Il cast, capace di incarnare le inquietudini della regista.
Cosa non va
- Peccato per una certa confusione in fase di scrittura che rischia di disorientare lo spettatore.
- Troppi elementi rendono l'opera meno a fuoco nel suo complesso.