Al di là della vita e della morte
Il bianco è nero di City of Life and Death, al tempo stesso lucido e cronachistico, raggelante e affilato, astratto e sfumato, richiama alla mente molteplici suggestioni. Affiora alla mente il recente dittico di Clint Eastwood, in particolare La battaglia di Iwo Jima, perché anche il film del regista Lu Chuan sceglie di rievocare l'indicibile orrore del massacro di Nanchino, una delle più abominevoli e ignominiose stragi belliche di tutti i tempi, cicatrice ancora lancinante per il popolo cinese, attraverso il punto di vista del "nemico", ovvero del soldato giapponese Kadokawa (lo straordinario Hideo Nakaizumi). Ma non è esagerato perfino accostare City of Life and Death ad alcuni grandi affreschi antimilitaristi che hanno fatto la storia del cinema, come quelli di Stanley Kubrick, Kon Ichickawa o Akira Kurosawa, perché l'opera di Lu Chuan trasuda della stessa irreprensibile e rigorosa condanna contro la violenza, dello stesso disperato urlo di dolore, ma anche dello stesso sguardo compassionevole e profondamente umanista, in cui, in fondo al baratro della cascata infinita di corpi, si riesce perfino a rintracciare una soffocata speranza. E proprio in questo sguardo, che si nutre soprattutto dell'innocenza violata e sciupata dell'infanzia, di una religiosità pura e laica, non è neppure sbagliato rintracciare ascendenze del Neorealismo italiano. Ma la verità è un'altra: City of Life and Death è un manifesto unico e a sé stante, un'opera capace di impossessarsi con forza di un proprio stile, di gridare la propria verità, che è fatta sì di morte, ma anche, come ricorda il titolo, di un'insopprimibile forza vitale.
Spoglio, scabro, crudo, decontestualizzato, scevro quasi del tutto dalle pomposità patriottiche cui i film di propaganda cinesi ci hanno sempre abituato. Pressoché muto, City of Life and Death, si affida pressoché interamente alla presenza fragorosa dei corpi, dei gesti, dei volti disperati e solcati di lacrime. Il film diventa quasi un esperimento astratto e simbolico, ricolmo di immagini dal taglio a volte onirico e perfino grottesco (l'assurda danza di guerra finale delle truppe nipponiche). Sicché le macerie della capitale Nanchino, percorse febbrilmente dalle truppe del generale Lu e dallo spiritato esercito nipponico, sembrano uscire quasi da uno scenario post-apocalittico o da un dipinto surrealista. È così che la ricostruzione storica (pur rigorosa) e la connotazione politica finiscono quasi per sfumare in secondo piano, di fronte alla rappresentazione di una tragedia che è soprattutto esistenziale, umana, assoluta. Con un coraggio e una lucidità stupefacente, Lu Chuan decide di affrontare di petto tutto l'orrore di un evento non ancora rimosso nella memoria collettiva del suo popolo, per di più rifiutandosi di cedere alla tradizionale retorica anti-nipponica. Il soldato giapponese Kadokawa e il generale cinese Lu sono esattamente uguali di fronte all'immenso baratro che si staglia tra la morte e la vita.