La recensione di Ahed's Knee, lungometraggio selezionato in concorso a Cannes 2021, comporta un ritorno nel mondo cinematografico di Nadav Lapid, regista israeliano che prima del recente ritorno sulla Croisette (era già stato alla Cinéfondation con due cortometraggi nel 2003 e nel 2006 e poi alla Semaine de la Critique nel 2014 con la sua opera seconda) ha trionfato alla Berlinale nel 2019 e lì è tornato nel 2021 in veste di giurato, insieme ad altri recenti vincitori dell'Orso d'Oro, per il concorso principale. In tale occasione è stato premiato un film provocatorio e audace come Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude, ed è facile intuire che a Lapid quella pellicola abbia fatto effetto, trattandosi - anche - di un inno contro la censura, argomento che è al centro dell'opera quarta dell'autore israeliano, la prima a competere per la Palma d'Oro all'interno della kermesse cinematografica più prestigiosa al mondo.
Parliamo di cinema
Protagonista di Ahed's Knee è un cineasta, tale Y (nome completo sconosciuto), che si reca in una località sperduta per una proiezione speciale di uno dei suoi vecchi film, mentre sta lavorando al casting del suo nuovo progetto. Invitato da Yahalom, la responsabile del servizio bibliotecario, lui è poco incline a interagire in modo cortese con chicchessia, soprattutto dopo aver saputo che nel corso dell'incontro legato alla proiezione dovrebbe attenersi a una sorta di copione, comunicando in anticipo gli argomenti che intende affrontare cosicché non ci siano sorprese sgradite al governo israeliano. Y, che crede nella libertà artistica a tutti i costi, non le manda a dire su tale possibilità, prendendosela soprattutto con la più giovane e ottimista Yahalom, in attesa di poter parlare con il pubblico venuto a scoprire il suo lavoro d'altri tempi.
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Arte e politica
Il cinema di Nadav Lapid ha sempre avuto una forte componente politica, a partire dal primo lungometraggio Policeman che metteva in scena la difficoltà di un poliziotto di Tel Aviv nel riconciliare le scelte professionali e la vita privata. Due anni fa, con Synonyms, tale poetica si spostò in Europa, tramite la storia di un soldato che cerca di rifarsi una vita a Parigi imparando il francese, ma senza riuscire a dimenticare - talvolta con conseguenze estreme - tutto il male che pensa del sistema politico nel suo paese d'origine. Proprio quella componente era l'elemento più debole del film precedente, un'opera elegante e linguisticamente ricca che si ritrovava inaspettatamente appiattita a tratti da una serie di pistolotti poco sottili e poco integrati nel discorso generale della pellicola. Qui il nesso tra premessa e messaggio filosofico è più solido sin dall'inizio, ma lo squilibrio rimane perché, come da consuetudine, Lapid concentra la bile allo stato puro in una manciata di sequenze, esponendola in modo rozzo e superficiale.
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Il cineasta ha progressivamente migliorato la propria tecnica sul piano formale, e c'è in questa sede un lavoro preciso su angolazioni, luci e montaggio che lascia intendere qualcosa di molto più ambizioso, se non fosse per i pistolotti di cui sopra che, nel momento in cui si fanno vivi, imbruttiscono anche l'apparato estetico del progetto, mettendo a nudo le vulnerabilità artistiche di un regista il cui talento non va ancora del tutto di pari passo con la carica polemica piuttosto monodimensionale e sterile che accompagna i suoi film. Pertanto, al netto del precedente trionfo berlinese, la selezione nel concorso di Cannes sembra al momento molto generosa, una promozione che si basa più sul curriculum finora che sul lavoro nuovo, un lungometraggio interessante e in più punti anche stimolante, ma appesantito da una rabbia personale che nella sua forma presente poco ha a che fare con il cinema.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Ahed's Knee ribadendo come sia l'opera quarta di Nadav Lapid, cineasta israeliano che non riesce ancora del tutto a unire in modo coerente ed efficace la padronanza del mezzo cinematografico e la carica polemica legata al governo del suo paese.
Perché ci piace
- I due protagonisti funzionano generalmente bene insieme.
- La componente metacinematografica regala qualche soluzione estetica interessante nella prima parte del film.
Cosa non va
- La componente politica appesantisce e al contempo banalizza il progetto in più punti.