Achilles è il grido di aiuto del cineasta iraniano Farhad Delaram, che costruisce un road movie atipico in cui emerge prepotentemente tutta la sua voce, stroncata da un regime che sopprime i diritti individuali. Nella fuga verso la libertà di Farid (interpretato da Mirsaeed Molavian), detto Achilles, ed Hedieh (impersonata da Behdokht Valian) si respira un'ardente voglia di rivoluzione e sovversione, nonostante le tante metafore contenute all'interno della trama rimangano ingabbiate in un progetto limitante, in quanto incapace di rivolgersi con chiarezza allo spettatore.
Nella nostra recensione di Achilles (in lingua originale Ashil), presentato in anteprima italiana alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma e in concorso nella sezione Progressive Cinema, proviamo a dare forma ad un messaggio che dovrebbe essere globale, ma che purtroppo, anche a causa di una sceneggiatura fin troppo semplice e invisibile, fatica a trovare un linguaggio d'espressione comprensibile.
Achilles: i muri parlanti del dissenso
Achilles fa uso di un impianto metaforico sottile ed efficace, che si svela progressivamente con l'incedere della storia. Mentre lavora in ospedale, Farid (che ha rinunciato ad una brillante carriera da regista) incontra casualmente Hedieh, ricoverata nel reparto psichiatrico. La donna non riesce a dormire: il muro della stanza dove alloggia, infatti, non smette di parlare. Inizialmente siamo portati a pensare che sia un'effettiva conseguenza della patologia psicologica di Hedieh, ma in verità, in modo del tutto inaspettato, l'immagine del muro ha un significato molto più potente e antico. Lo capiamo per bene solo alla fine, nel momento in cui vediamo il protagonista lanciarsi contro il muro della stanza dell'albergo: le pareti si sgretolano rapidamente, rivelando poco a poco l'ambiente al di là dell'edificio. C'è poco da dire: il muro sembra rappresentare il bavaglio del regime iraniano, mentre il gesto di sfondarlo è un invito programmatico a guardare in faccia la realtà e combattere. Per certi versi, tale "chiamata alle armi" sembra un controsenso rispetto a quello che osserviamo all'interno di Achilles, con la coppia di protagonisti che scappa verso un mondo probabilmente migliore, senza però prendere parte alla lotta.
Ecco, in questo la conclusione rappresenta un intenso sconvolgimento rispetto alla chiave narrativa di tutto il lungometraggio, che così assume contorni più definiti e precisi. Peccato che però non tutti i mezzi narrativi presenti all'interno della pellicola siano ugualmente efficaci allo stesso modo: gli stessi riferimenti alla dittatura in Iran passano per voci esterne, con brevi accenni indiretti che, se da un lato sono assolutamente suggestivi e perfettamente coerenti con il linguaggio fortemente simbolico dell'opera, non arrivano come dovrebbero, rimanendo bloccati in una sorta di dimensione intima che fatica a emergere. Per quanto non sia totalmente incomprensibile il messaggio di fondo di Farhad Delaram, la semplicità e invisibilità della sceneggiatura non aiuta affatto, visto che la mancanza di una trama forte alimenta molti dubbi, non permettendo tra l'altro agli spettatori di calarsi all'interno della storia narrata, che sembra fin troppo respingente ed esclusiva. Altro problema evidente nel film è il ritmo compassato, specialmente nella parte iniziale del progetto.
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Achilles: un viaggio che parte a rilento
Tutta la fase iniziale in cui vediamo l'introduzione dei personaggi e la presentazione del contesto storico e politico di riferimento, infatti, è particolarmente a rilento, con il vero e proprio viaggio di Farid ed Hedieh, cuore pulsante dell'opera, che arriva con difficoltà. Da quel momento in poi, il ritmo effettivo del film trova finalmente una stabilità prendendo il via con grazia e trasporto. Di fronte ad un incipit così, non è semplice inquadrare in modo diretto il progetto, trovando lungo la strada un ermetismo che, per fortuna, poi si apre un po', non spalancandosi mai completamente al pubblico. Ed è questo, probabilmente, il maggiore problema che si riscontra all'interno della pellicola, che si fa carico di un contenuto davvero ben costruito e pensato, ma che pecca nella trasmissione a degli spettatori fuori da queste dinamiche politiche e sociali. È come se la narrazione di Achilles, ricca di metafore, messaggi e di un linguaggio per nulla scontato e superficiale trovasse un ostacolo a esprimere un'universalità che in questo caso è fondamentale affinché il lungometraggio sia capito il più possibile.
Detto questo, se proprio il copione ha diversi rallentamenti nel momento in cui media con l'esterno, la regia sembra fare tutto il contrario, cercando di chiarire al meglio delle possibilità la direzione intrapresa dalla pellicola. Ci sono infatti delle immagini che sono più rivelatorie di qualsiasi passaggio narrativo, sia esso un dialogo o un evento, con uno sguardo in macchina, in particolare, che si carica di un incredibile significato. Vediamo spesso il protagonista usare la camera del cellulare, tornando a fare di fatto il suo lavoro come cineasta, trasformando un comune oggetto in un mezzo potente. Mentre osserviamo lo schermo dello smartphone in azione in scena, diventa palese che le inquadrature rivolte al cellulare, che assumono una prospettiva quasi metacinematografica, sono portatrici di una denuncia urgente e immediata che, per quanto riguarda Farid - che non a caso è ispirato allo stesso Farhad - si esprime attraverso il suo impegno da regista. In questa sottile intersezione tra finzione cinematografica e realtà, emerge lo scopo finale dell'autore: spingere tutti gli oppressi a contrastare gli avversari con tutti i mezzi a disposizione, siano essi fisici o intellettuali.
Conclusioni
La nostra recensione di Achilles, opera prima di Farhad Delaram, rende chiara una particolare contraddizione: se la sceneggiatura del film, nella sua linearità, fa largo uso di simboli e riferimenti esterni che non sempre giungono a destinazione, la regia, al contrario, è molto più diretta, richiamando una necessità impellente di azione. È però nel calarsi nella realtà esterna universale che la pellicola fa decisamente più fatica, con un linguaggio che non si stacca da una dimensione confinata che rimane fin troppo intima e limitata, anche a causa di un inizio troppo respingente che non arriva come dovrebbe. Per quanto il pubblico avverta frammenti di senso, purtroppo non riesce ad avere una visione completa dell'importante messaggio contenuto all'interno dell'opera.
Perché ci piace
- Un linguaggio sottile e lineare.
- Il muro come simbolo di oppressione.
- L'urgenza della denuncia che passa attraverso il lavoro del regista...
Cosa non va
- ... che non trova, però, una dimensione universale.
- Un'introduzione a rilento.
- Una visione incompleta del messaggio di fondo.