A passo d'uomo, la recensione: in viaggio con Jean Dujardin

La recensione di A passo d'uomo, terzo lungometraggio di Denis Imbert tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Sylvain Tesson.

A passo d'uomo, la recensione: in viaggio con Jean Dujardin

Nel 2021 Sylvain Tesson, scrittore francese e amante dei viaggi in solitaria, si lasciava convincere dal fotografo e amico Vincent Munier a condividere l'avventurosa ricerca del leopardo delle nevi nel cuore degli altopiani tibetani. L'anno successivo La pantera delle nevi, il documentario che raccontava quell'avventura, vinse il César. Oggi Tesson torna a essere protagonista del grande schermo, questa volta (come leggerete nella recensione di A passo d'uomo) nell'adattamento del suo romanzo autobiografico, Sentieri neri, che il regista Denis Imbert trasforma in un quasi documentario affidandosi al talento di Jean Dujardin e ad una squadra ridotta all'osso: 10 persone per attraversare la Francia da Sud a Nord e filmare Dujardin negli stessi luoghi di Tesson, 1300 chilometri di sentieri impervi mai battuti prima da Mercantour fino a Cotentin. Il film è in sala dal 19 ottobre.

Il viaggio come cura dell'anima

A Passo Duomo Photo Thomas Goisque2021 Radar Films La Production Dujardin Tf1 Studio Apollo Films Distribution France 3 Cinema Auvergne Rhone Alpe Cinema 1215 4
A passo d'uomo: una scena del film

Un foglio accartocciato e ritrovato in fondo a una borsa: come dice lo stesso Sylvain Tesson nel libro e come sentiremo ribadire da Jean Dujardin nel film, è il motivo che porterà Pierre, il protagonista di A passo d'uomo, ad attraversare la Francia. Nello specifico tutto ha inizio da un volo di 8 metri dall'alto di un edificio dopo una serata ad alto tasso alcolico, uno stupido incidente che lo lascerà sordo da un orecchio, senza olfatto, con evidenti cicatrici sul corpo, frequenti attacchi epilettici e per qualche tempo quasi paralizzato.

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A passo d'uomo: una scena del film

Dopo il risveglio, una volta rimessosi in piedi, Pierre si ripromette di attraversare la Francia a piedi, un viaggio folle che in molti gli sconsigliano di fare, un cammino di rinascita e riconnessione con se stesso per rimettere a posto un corpo dolorante, ricucire rapporti e rimarginare ferite. Così Imbert, qui al suo terzo lungometraggio, scaraventa Pierre nella Francia rurale e selvaggia dei "sentieri neri" ("sur les chemins noirs"), che nella versione originale danno il titolo al film e al romanzo da cui è tratto. L'intuizione è quella di stare addosso al protagonista marcandolo stretto, filmarlo fino a quando non scompare dall'inquadratura e stargli accanto in attesa che fumi un sigaro, accenda il fuoco, tiri fuori un libro e lo legga o cada rovinosamente sulla roccia viva.

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Il tempo della lentezza e il personaggio di Dujardin

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A passo d'uomo: una scena del film

Siamo dalle parti di Into the Wild, ma lontano dal lirismo e dalla dimensione più ancestrale e intima dell'opera che regalò a Emile Hirsch forse il ruolo più importante della sua carriera: un classico racconto di redenzione, riscatto e ricerca di libertà nello slancio selvaggio della natura. Nulla di originale, dal punto di vista cinematografico ci si ritrova davanti a una narrazione piuttosto convenzionale costruita, seppur con equilibrio, sul tradizionale alternarsi di passato e presente. Insieme aiutano lo spettatore a ricostruire l'immagine di Pierre rimontandone insieme i pezzi: da un lato il personaggio dei flashback perso tra gli eccessi dell'alcol e gli incontri mondani, dall'altro quello delle immagini di viaggio, l'esploratore solitario, il viandante spesso spigoloso e poco incline alla generosità, un uomo in fuga che non ha "né la rabbia del sabotatore, né la forza dell'attivista".

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A passo d'uomo: una scena del film

Peccato però che nel passaggio dall'uno all'altro non ci sia l'ombra di un'evoluzione, mentre le parole della voce narrante fuori campo inchiodano Pierre a una sequela infinita di riflessioni, delle più disparate: c'è in A passo d'uomo l'ostinazione del viaggiatore, l'introspezione, ma anche progresso vs lentezza, la nostalgia per una Francia rurale che non c'è più, sopraffatta dai ritmi sfrenati della modernità e lo scoramento di dover constatare l'inesorabile spopolamento di alcune aree dove "ciò che non era chiuso era in vendita e ciò che era in vendita faticava a trovare un acquirente". Difficile seguirle tutte. Pierre è anche i personaggi che incontra nel suo peregrinare: contadini, cacciatori, compagni di viaggio che decidono di accompagnarlo per brevi tratti (compreso un vecchio amico e la sorella), gli abitanti di alcuni remoti villaggi della campagna francese. Le parole sono in gran parte quelle di Tesson che finiscono però per sopraffare l'intero racconto.

Conclusioni

Come ampiamente detto nella recensione di A passo d'uomo, Denis Imbert trasforma in un quasi documentario l'adattamento del romanzo autobiografico dello scrittore e viaggiatore Sylvain Tesson. Per farlo si affida al corpo di Jean Dujardin, lo pedina, lo filma fino a quando non scompare dall'inquadratura e gli sta accanto in attesa che faccia qualcosa: fumare un sigaro, accendere il fuoco, tirare fuori un libro, prendere appunti su un taccuino o cadere rovinosamente sulla roccia viva. Per il resto nulla di nuovo: la storia del viaggio in solitaria come cammino introspettivo e redenzione è un topos ricorrente. Le parole sono in gran parte quelle di Tesson che finiscono per sopraffare l’intero racconto.

Movieplayer.it
2.5/5
Voto medio
4.3/5

Perché ci piace

  • Un classico racconto di redenzione e ricerca di sé attraverso il viaggio in solitaria.
  • Il volto di Jean Dujardin, che resta sempre in campo. Denis Imbert lo marca stretto e gli sta addosso permettendo al pubblico di stare sempre dalla sua parte.

Cosa non va

  • Troppi spunti di riflessione, difficile seguire le elucubrazioni del protagonista soprattutto se affidate alla sua voce fuori campo.
  • Nel continuo alternarsi di passato e presente, il personaggio che si delinea non sembra conoscere alcuna evoluzione.