A morte il boss!
Guardi un film come Louise-Michel e ti riappacifichi col cinema. Non quello strombazzato dal battage pubblicitario, ma l'arte che fa arte pur senza un soldo in tasca. Poi il passaparola fa il resto: un film bello lo vorresti far vedere a chiunque. La Francia ci ha abituato a commedie eleganti chiuse in universi limitati che fuori dai confini locali andavano perdendo un po' di brillantezza. Con quest'opera diretta dal duplice sguardo di Gustave de Kervern e Benoît Delépine va oltre e mette insieme un prodotto che conquista per la sua originalità, ma anche per la capacità di avvinghiare alla leggerezza dei toni una serie di temi necessari nel mondo in crisi di oggi, maneggiati tutti con profonda umanità. Perché proprio dall'essere umano, dalla sua fragilità e dal dovere imprescindibile di ribellarsi allo stato delle cose, si dipana ogni stramba situazione che le 260 inquadrature di cui è composta l'opera documentano.
Nel vuoto di una fabbrica che ha lasciato senza lavoro, da un giorno all'altro e senza preavviso, una dozzina di operaie inviperite, prende corpo l'agognata vendetta che muove il film: fare del grande capo, del responsabile di quell'umiliazione, carne da macello. L'idea è di Louise, una ragazzona taciturna con un passato da galeotta, che per compiere il misfatto assolda un killer imbranato che piuttosto che uccidere un cane molesto gli sigilla malamente il muso con il nastro adesivo. Il problema fondamentale è però un altro: chi è il vero boss? Lo spunto è nero, la commedia nerissima, la realizzazione abbagliante. I due registri francesi riempiono le falle aperte dalla limitatezza del budget con la loro inventiva e una propensione naturale a un umorismo irresistibile imbevuto di cinismo senza perdere di umanità, distillato anche dalle zone più oscure delle vite miserabili dei due protagonisti. La camera resta per lo più fissa, eppure ogni inquadratura si gonfia di senso, grazie a dialoghi fulminanti, situazioni intelligenti e piccoli gesti che danno coraggio. Delépine e Kervern riflettono su un mondo del lavoro, storpiato da un capitalismo arrogante, che ha ormai bruciato la sua coscienza, quella di chi comanda mortificando i sottoposti e quella di chi subisce e non trova la forza di ribellarsi. Anche chi sembra non aver più nulla da perdere non ha il coraggio di far sentire la propria voce, di opporsi all'oppressore, e manda avanti i moribondi, coloro in fin di vita, evitando di assumersi ogni responsabilità. I registi spingono i personaggi oltre la loro rassegnazione, li costringono all'azione: messi alle strette, di fronte a un mondo pronto a sbranarli, questi scoprono che rischiando c'è la possibilità di tornare a sentirsi vivi e di riconoscere nell'altro l'avvento dell'amore. Accanto ad attrici non professioniste, tirate fuori dai cassonetti delle fabbriche di una vita vera ma altrettanto meschina, Yolande Moreau e Bouli Lanners, due corpi che trasudano sentimento anche nella gabbia delle solitudini in cui devono rinchiudersi. La grazia con la quale entrambi si accostano ai propri personaggi ci riempie il cuore di tenerezza, mentre la confusione dei generi sessuali che propone la sceneggiatura in sottotraccia, come ulteriore estensione del discorso sul capitalismo, va a raccontare con straordinaria delicatezza quella diversità che il cinema si permette troppo spesso di scimmiottare. Un gioiello.