"Noi siamo per gli dei quel che sono le mosche per un ragazzo capriccioso: ci uccidono per divertirsi" (Re Lear - William Shakespeare)
E nell'universo terrestre soggiogato dalla malavita, dove gli dei sono uomini nascosti dietro a un cellulare, capi di "anelli" che ordinano, giudicano, manovrano esistenze altrui, anche un professore anonimo come Dong-ha, può ritrovarsi nel ruolo di mosca tra le mani di un ragazzo capriccioso. Come sottolineeremo in questa nostra recensione di A Model Family, la serie televisiva di dieci episodi disponibile su Netflix, parte dal concetto di famiglia, per diramarsi lungo due rami connessi e divergenti. Da una parte c'è la famiglia di stampo criminale, quella a cui scegli di appartenere e in nome della quale perdere la propria natura umana per abbracciare un'indole mostruosa, animale, malefica e luttuosa. Dall'altra parte c'è invece la famiglia che ti crei, quella da proteggere, quella fragile, di figli che chiedono senza comprendere, e mogli che osservano e agiscono, facendosi complici e nemiche, guardiane e protettrici di un nucleo pronto ad affrontare una tempesta in agguato.
La Corea del Sud ancora una volta si fa scrutatrice di esistenze anonime, vittime di un'esistenza precaria, e pronte a tutte pur di risalire e respirare, anche a costo di abbracciare il mondo della malavita. Perché in A Model Family non ci sono concorrenti lasciati a perire in un gioco della morte (Squid Game), e nemmeno membri di una famiglia assurti a parassiti in una scalata sociale senza vittoria (Parasite), ma un uomo talmente ordinario da apparire tragico, zimbello del destino ritrovatosi a ricoprire il ruolo di giocatore di una lotta per la sopravvivenza, pedina involontaria lanciata in un vortice di morte e ricatti, ordini e spari. Il tutto per la durata di 10, adrenalinici episodi dove la famiglia, sia quella criminale sia quella tradizionale, sono tutto, meno che famiglie modello.
A MODEL FAMILY: LA TRAMA
Dong-Ha (Jung Woo) non ha nulla di speciale. È un normale capofamiglia, con una carriera mediocre e una vita modesta. Sposato da più di dieci anni con Eun-Joo (Yoon Jin-Seo) i due passano le giornate parlandosi a malapena, sopravvivendo a un matrimonio ormai finito nell'attesa di un divorzio. La stessa Eun-Joo pare nascondere un segreto che nessuno conosce, o forse così sembra. Dopo aver sperperato la somma destinata all'operazione al cuore del figlio minore, l'uomo è nel pieno di una crisi finanziaria che non farà altro che acuire il già precario equilibrio domestico. Ma il caso è beffardo, e così un giorno Dong-Ha si imbatte in un veicolo abbandonato con dentro un sacco di soldi. Sembra una manna dal cielo, peccato che oltre al denaro nell'abitacolo ci siano i corpi di due uomini. Un destino fortuito, inaspettato, che poteva risollevare la sua vita, ma che invece condurrà l'uomo negli inferi dello spaccio e della malavita. Dal momento in cui ha aperto la portiera di quella vettura, Dong-Ha dovrà affrontare il suo coinvolgimento con Gwang-Cheol (Park Hee-Soon), numero due della droga. E così quella vita così tanto anonima, non sarà più lo stessa.
LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO
Nel 1981 Bernardo Bertolucci aveva già raccontato come la precaria risolutezza di un impresario della Bassa Padana si disciogliesse come neve al sole a causa della potenza criminale ne La tragedia di un uomo ridicolo. Il rapimento del figlio è una miccia che tutto prende e accende, lasciando dietro di sé truffe, accordi con usurai e crisi coniugali. Lo specchio di un'Italia alla ricerca di una propria identità negli anni '80 tra paure e violenza, trova oggi il proprio riflesso in un universo mediatico come quello sudcoreano, dove l'esistenza degli ultimi, degli inascoltati, delle ombre di uomini e donne che camminano silenti e a testa bassa nel percorso della vita, vengono presi e gettati al centro di eventi più grandi di loro. Lo schermo televisivo e cinematografico si fa dunque specchio di una denuncia sociale attenta alle discriminazioni sociali, alle falle della mente, alle conseguenze di un padre che in nome della propria famiglia accetta di farsi corriere della droga. Come il padre interpretato da Ugo Tognazzi nell'opera di Bertolucci, anche il Dong-ha di Jung Woo si riduce a un anti-eroe al limite del ridicolo. Padre di un figlio malato di cuore, e marito di una donna stanca e pronta per il divorzio, l'uomo accetta di scendere a patti con la sua parte più amorale, di sporcarsi di un sangue che sa di morte e di ricatti, lasciandosi accecare dal sogno di ricchezza promesso dal Dio-denaro per il bene della propria famiglia. Ma è proprio in nome di quel nucleo domestico da proteggere, che l'uomo si ritrova suo malgrado a divenire membro di un'altra famiglia, quella di uomini pronti a tradirsi per il controllo altrui, di gangster che si mordono, controllano, inviano messaggi e accendono incendi o nascondono corpi.
UN PADRE BORGHESE PICCOLO PICCOLO
È un padre che cerca di salvare la propria famiglia; di nascondere i propri figli e la propria moglie sotto il mantello dell'invisibilità e delle bugie, Dong-Ha. Eppure ogni suo gesto, ogni sua parola è per lui e per la sua famiglia un passo avanti verso il baratro. E così, in un universo maschiocentrico, dove i boss sparano, decidono, ricattano, parlano, mentre i padri di famiglia si limitano a rimanere impietriti, indecisi sul da farsi, sono le donne a prendere il comando. Comando delle azioni altrui, comando delle indagini, comando di una famiglia a pezzi. Una rivendicazione femminile compiuta in silenzio, in sordina, attraverso il peso di azioni concrete che vanno a cozzare con quelle di pensieri maschili tenuti in sospeso, in evoluzione senza realizzarsi mai, se non sotto forma di violenza. Per comunicare l'imprevedibilità degli eventi, e la caduta di un uomo sotto il peso di azioni incontrollate e fuori dalla propria portata, era necessario lasciare tutto nelle mani di un personaggio anonimo, ordinario, tanto ingenuo da parere debole e stolto. Jung Woo compie un lavoro certosino, cucendosi addosso un uomo dagli occhi costantemente spalancati, pronti a mettersi alla ricerca di una risposta, o di una spiegazione, per ciò che il destino gli ha riservato. Il suo viso è una maschera dell'incomprensione; il suo corpo una marionetta di legno che si muove per inerzia, dove ogni gesto viene compiuto a tentoni. Il suo cammino lungo il tunnel della malavita è una camminata segnata da cadute, da orecchie che ascoltano e menti che non ragionano. La sua accettazione finale di far parte di quel mondo, a costo di salvare ogni membro della propria famiglia, è un patto siglato anche dal cambio dei vestiti: le camicie bianche, simbolo di purezza, lasceranno spazio al nero di magliette e giacche elevate a presagi di morte e timore imminente. Il tutto nella speranza di poter indossare, nuovamente, quella divisa anonima da professore universitario, fragile, ingenuo, anonimo.
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CORSIE NARRATIVE SU AUTOSTRADE IMMERSIVE
Strutturata nell'arco di dieci episodi, Il regista Kim Jin-woo lancia la propria serie come una macchina lungo un'autostrada a tre diramazioni. La linea narrativa principale si affianca con cura e armonia a due corsie subordinate, lasciando che con naturalezza il subplot della polizia si opponga, fino a incrociarsi, con quello della malavita sudcoreana. Per otto episodi il traffico delle informazioni, dei dettagli da scoprire e dei plot-twist abbastanza sorprendenti, scorrono senza intoppi, intrigando lo spettatore fino a tenerlo per mano, lungo questa corsa a perdifiato. Eppure, qualcosa scricchiola a un passo dall'epilogo. Il nome dei membri dell'anello criminale sono flash che disorientano lo spettatore; troppi personaggi in campo, troppo poco il tempo per incanalare e assimilare il tutto. Questo accumulo di nomi, di uomini e donne che si attaccano, si chiamano e giurano vendetta, finisce per essere un girotondo di esistenze che manda fuori strada l'attenzione del pubblico. Al di là della careggiata, lo spettatore ricerca la via maestra, senza però possibilità di viaggiare lungo il centro, ma sempre al confine. Tanto basta per uscire soddisfatti dalle scene finali, ma in maniera solo lievemente sufficiente e non totalmente appagante come poteva avvenire fino a poco prima. Da canto suo Kim Jin-woo orchestra ogni puntata con puntuale abilità. Tra carrellate, totali, e grandangoli impiegati in maniera ineccepibile e puntuale, il regista crea un'atmosfera immersiva, al limite del coinvolgimento videoludico. Rendendo lo spettatore parte attiva del gioco televisivo, il regista colma le lacune e gli intasamenti che caratterizzano la struttura narrativa, lasciando che gli occhi si riempiano di attrazione e sorpresa.
GIOCO DI OPPOSIZIONI
Riprendendo una struttura visiva e cromatica collaudata appieno già da Bong Joon ho, Park Chan-Wook (e con un tocco di Takeshi Kitano), Kim Jin-woo sviluppa ogni episodio su continui contrasti, alternando il buio dell'anima attraverso una fotografia fredda e cinerea, con fulgidi momenti di calore umano rilasciati da tonalità calde e rosso fuoco. Allo stesso modo, i primi piani sul professore, un Don Chisciotte contemporaneo, solo, contro tutto e tutti, si alternano a riprese più ampie, pronte a cogliere e riunire nello spazio di una stessa inquadratura membri di una famiglia criminale pronta a tradirsi. Lo spettacolo della morte è preso e mostrato in tutta la sua violenza, senza edulcorazione, e senza rasentare mai il confine con lo splatter. Una pittura funesta dipinta con il rosso del sangue e il nero della paura più accecante: questo è A model family, una messa in sequenza della caduta dell'eroe che eroe non è, perdendosi nei meandri di una criminalità giostrata su promesse non mantenute, vendette pronte a compiersi, poliziotti corrotti e malviventi con un briciolo di umanità.
Quella di A model family non sarà una famiglia modello, ma è sicuramente un saggio sulla perdita della propria interiorità, di un'integrità sporcata di ambizione e ricerca di una felicità sfiorata, ma mai veramente agguantata. Un universo dove la criminalità si fa rappresentazione in scala ridotta e metaforica delle proprie paure, delle proprie perdite e delle proprie mancanze. Timori, lacune e perdite come quelle di un padre assente, che tenta di recuperare un briciolo di felicità, finendo per lasciare la propria famiglia al centro della tempesta senza ombrello.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione della serie A Model Family sottolineando come sempre più la Corea si conferma come una delle produttrici di opere cine-seriali più interessanti del momento. Sebbene pecchi di sovrainformazioni a livello narrativo nelle due ultime puntate, a sostenere il peso di una serie riuscita è soprattutto il comparto visivo e registico.
Perché ci piace
- La regia di Kim Jin-woo.
- La colonna sonora, penetrante e perturbante.
- Il ruolo delle donne.
Cosa non va
- Il sovrappopolamento di personaggi alquanto superficiali nelle ultime due puntate.
- Lacune a livello narrativo.